Lettura del «Saul» (1963)

Aa. Vv., Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 445-484; poi in Saggi alfieriani (1969 e 1981), e Studi alfieriani (1995).

Lettura del «Saul»

Il Saul fu ideato e steso dopo l’Idea e stesura della Merope e versificato alla fine della versificazione di quella tragedia[1], con cui l’Alfieri aveva ripreso la sua attività tragica malgrado i vani propositi di non superare il numero delle dodici tragedie precedenti. Nelle pagine della Vita dedicate al racconto della composizione di queste due tragedie, il poeta attribuí a tutt’e due lo stesso giudizio entusiastico circa la irresistibile forza ispirativa che lo aveva costretto a comporle[2]. Ma in realtà esso vale molto diversamente per la Merope, che nasceva da un’esigenza piú tecnica e letteraria e sulla base di una ispirazione parziale, di un parziale elemento dell’animo alfieriano, e per il Saul, che nasce dalla piú profonda ripresa del centrale motivo poetico alfieriano, dal pieno della sua intuizione tragica della vita e della sua autobiografia poetica. Altezza, profondità e complessità che poi l’Alfieri riconobbe al Saul nel Parere e in un altro passo della Vita, dove, parlando del Saul, dice che «in esso vi è di tutto di tutto assolutamente» e che il personaggio di Saul era il suo «personaggio piú caro»[3], perché il piú vicino anche alla sua natura, complessa e irrequieta, tormentata da «ira e malinconia», oscillante fra impeti e sdegni eroici e desiderio di quiete e di affetti consolatori («Bramo in pace far guerra, in guerra pace»[4]), fra speranze e delusioni, fra sogni e volontà di azione e di affermazione della sua personalità e il doloroso pessimismo che scaturisce dalla constatazione dei limiti che chiudono la condizione degli uomini in una realtà ostile, in un ordine delle cose dominato da forze oscure e implacabili.

Il Saul nasce cosí dagli strati profondi dell’animo alfieriano, dal fondo piú intimo della sua esperienza della vita, dal centro della sua intuizione della tragica situazione umana. E se ciò non esclude naturalmente la ricerca di testi piú o meno particolarmente utilizzati dall’Alfieri nella costruzione della sua tragedia[5], di suggestioni letterarie (che poi si allargano in una piú generale atmosfera congeniale di poesia “alta” in cui campeggia comunque la Bibbia), si può ben dire che il testo piú valido ed importante in relazione alla concezione centrale del Saul rimanga appunto la Bibbia.

Questa offriva oltretutto all’Alfieri una solida trama di racconto grandioso e drammatico, anche se naturalmente disposto in una successione di ordine narrativo e storico che l’Alfieri potentemente raccolse e strinse in una energica concentrazione tragica, scartando le molte ripetizioni e gli episodi secondari che disperdevano la forza piú centrale dell’episodio o ripugnavano al rilievo tragico e alla caratterizzazione alfieriana dei personaggi (ad esempio certi accenni alla ferocia guerriera di Gionata, che l’Alfieri vide in una luce piú generosa e gentile, o il particolare delle nuove nozze di Micol durante l’esilio di David che contrastava con la figura della moglie fedele, con la immacolata purezza del personaggio alfieriano), per i quali il testo biblico offriva pure spunti e suggerimenti notevoli in quello che è uno degli episodi di tutta la Bibbia piú ricco di poesia e di grandiosità epico-narrativa, di tensione drammatica (con il finale a catastrofe cosí congeniale alla ispirazione alfieriana), di personaggi individuati e vari.

E sarebbe facile, in proposito, indicare precisi versetti biblici che suggerirono all’Alfieri schemi di situazioni e abbozzi di personaggi che nella fantasia alfieriana furono originalmente rielaborati e svolti in una loro nuova vita poetica. Si pensi a Gionata, specie nel suo rapporto di devozione e di totale affetto per David («anima Ionathae conglutinata est animae David, et dilexit eum Ionathas quasi animam suam»[6]); si pensi allo stesso Saul, la cui grandezza regale ed eroica è cosí potente già nel testo biblico[7] e che l’Alfieri svolse in un senso tanto piú intimo e suo e la cui vicenda essenziale (potenza e decadenza, amore e gelosia per David, vendetta e abbandono da parte di Dio e dei sacerdoti, alternarsi di furore e di quiete, di rivolta e di compromesso, strage dei sacerdoti, vana ricerca della vittoria e suicidio nella sconfitta e nello sterminio dei suoi figli[8]) era fortemente delineata nei suoi tratti fondamentali e in alcune situazioni psicologiche sommariamente, ma suggestivamente impostate. Certo, per lo piú, nel senso grandioso ed epico del re tormentato dalla sua gelosia per David e con l’accentuazione di un movimento interno piú meccanicamente prodotto dallo spirito maligno che Dio aveva introdotto in lui («Spiritus autem Domini recessit a Saul, et exagitabat eum spiritus nequam a Domino»[9]), ma anche, a volte, nel rilievo piú intimo e doloroso del sentimento della solitudine e della privazione dell’appoggio e dell’affetto dei figli («Non est qui vicem meam doleat ex vobis»[10]), in un inizio di scavo piú sottile del suo tormento di cui il poeta ebraico non mancò di indicare la dolorosa complessità anche se con una partecipazione meno intensa e con l’animo di chi riconosce il diritto del Signore, la legittimità indiscutibile della sua vendetta contro chi si era ribellato alla sua volontà e moriva da reprobo senza compianto e pietà.

Ma la Bibbia, in generale, e quell’episodio in particolare, offrivano alla fantasia alfieriana (nell’appassionata e disordinata lettura che il poeta ne fece subito prima di ideare il Saul[11]) anche elementi di suggestione e di stimolo piú vasti e singolarmente adatti, nella loro complessità, alle condizioni dell’animo e della fantasia dell’Alfieri in questo periodo e a quell’approfondimento della sua intuizione tragica della vita che la sua maturità spirituale e poetica ormai richiedeva. Offriva l’elemento suggestivo di un mondo primitivo e patriarcale (che si componeva con gli echi di altri mondi poetici primitivi particolarmente presenti nella cultura preromantica: Ossian e Omero ossianizzato[12]), grandioso e ricco di sentimento, piú immaginoso che razionale, e insieme non privo di quel calore di vita affettiva familiare che l’Alfieri aveva già cercato nella Merope. Offriva la suggestione di un mondo dominato dal soprannaturale, dal “meraviglioso” e dal “sublime” che si traducevano nello stesso linguaggio ardentemente immaginoso cosí in contrasto con il linguaggio e con la mentalità del secolo illuministico[13], al quale l’Alfieri si sente sempre piú ostile reagendo a quelle stesse concessioni agli aspetti piú gretti del verisimile, del credibile, del razionalmente giustificato che egli aveva fatto nella composizione della Merope (sicché il Saul è anche reazione dell’animo poetico alfieriano rispetto ai compromessi della precedente tragedia[14]), e soprattutto alla visione ottimistica e razionalistica dell’illuminismo, a un secolo che il poeta chiama nel suo Parere «niente poetico, e tanto ragionatore» (spunto iniziale della decisa polemica svolta nel trattato Del Principe e delle lettere e nelle Satire), incapace di «forte sentire» e di ardire poetico, privo del senso tragico della vita e della situazione dell’uomo nella sua ansia di infinita libertà e nei suoi rapporti con forze superiori che lo limitano e lo schiacciano.

La Bibbia aiutava cosí la fantasia alfieriana a realizzarsi in una poesia piú intensa e varia (in cui si incontravano l’esigenza piú intima del suo animo maturo e piú ricco e la volontà letteraria di un’opera varia di toni e di voci, meno monocorde e schematica delle tragedie giovanili, con un rapporto piú complesso fra il protagonista e gli altri personaggi), in un linguaggio piú immaginoso (anche se, a volte, al risultato altissimo di certe parlate di Saul – si pensi al compianto sulla sua decadenza senile impiantato sull’immagine lirica cosí potente della «quercia antica», At. II, sc. 2 – corrisponde una certa enfasi piú letteraria ed esterna[15]), entro una scena piú concreta ed evidente. E soprattutto sollecitava l’Alfieri ad una nuova e piú profonda espressione del suo essenziale motivo tragico con l’offerta della tragica vicenda del grande ed infelice re, su cui si esercitava la vendetta spietata del Dio ebraico, con la suggestione di una concezione religiosa severa e tirannica, di un ordine delle cose ferreo e inesorabile entro il quale eroicamente si dibatte l’uomo superiore per affermare la sua libertà e la sua individuale potenza, per spezzare i limiti che lo circondano e che oppongono la loro forza invincibile ai suoi sforzi supremi, alla sua volontà tenace, spezzata ma non piegata.

Quel rapporto fra uomo e divinità, che nella Bibbia si risolve pure nel riconoscimento del diritto celeste, della giustizia dell’ira di un Dio concepito in forme di assoluta potenza e autorità, di spietata crudeltà contro chi gli si ribella (il Dio che nell’episodio di Saul punirà il re per non aver eseguito fino in fondo il suo ordine di sterminare il popolo degli Amalechiti infedeli: «interfice a viro usque ad mulierem et parvulum atque lactentem, bovem et ovem, camelum et asinum»; cap. 15, vers. 3), balenò alla fantasia dell’Alfieri come l’espressione piú suggestiva del rapporto drammatico fra individuo e limite della realtà. Cosí come nella figura di Saul il poeta intuí la possibilità di un piú profondo e complesso sviluppo della tragedia del tiranno e della vittima insieme unificati e sottoposti a loro volta ad una suprema incarnazione del tiranno nelle forme di una divinità quale la Bibbia gli offriva, anche se in quel libro potenza implicava giustizia, mentre nella tragedia alfieriana la giustizia è solo riconosciuta dal mondo dei devoti e dei sacerdoti (il mondo a cui pure l’Alfieri volle dar voce e consistenza nell’impegno vasto e complesso di questo capolavoro), non da Saul nei suoi momenti piú veri e nel supremo atteggiamento della morte («Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?»[16]): non da Saul che rappresenta nella tragedia la voce piú vera e genuina della poesia alfieriana.

L’intuizione tragica della vita umana (intuizione, e non tema filosofico esplicato artisticamente in una tragedia a tesi, in personaggi-simboli) che l’Alfieri aveva espresso poeticamente in tutte le tragedie piú sue, veniva cosí potenziata nei suoi termini fondamentali, nel suo significato piú generale (al di là della piú esterna rappresentazione dell’urto fra individuo e limite della realtà in termini politici, in urto fra uomo libero e tiranno) e in quel suo stesso valore storico che la pone al centro nei suoi elementi individualistici e pessimistici, nella sua rivolta contro la piú generale concezione razionalistica ed ottimistica dell’illuminismo e nell’impossibilità di accettare positivamente un ordine delle cose di carattere trascendente (privo di quel valore del Dio-amore cristiano a cui l’Alfieri era totalmente chiuso) che viceversa si avvertiva crudele e opprimente, esterno e limitativo («il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera» sarà poi per Leopardi[17]) rispetto all’ansia di infinita libertà ed espansione dell’individuo, carico di desideri, di passioni, di eroica volontà.

Questo carattere fondamentale del Saul, come tragedia in cui l’intuizione tragica della vita dell’Alfieri raggiunge in potente, piena espressione poetica un valore piú profondo, complesso e a suo modo universale (e insieme riveste un significato storico eccezionale nella crisi preromantica, alle origini della spiritualità romantica, proprio nel personale approfondimento dell’animo naturaliter tragico e preromantico dell’Alfieri), è stato solo parzialmente avvertito dalla critica, sempre concorde però nel riconoscere in questa tragedia un culmine o addirittura il culmine assoluto della poesia alfieriana (anche se spesso a scapito dell’altro capolavoro della maturità alfieriana, la Mirra).

Cosí il Sismondi[18] vedeva acutamente nel Saul la tragedia della fatalità della natura umana, anche se, preoccupandosi di accentuare la concretizzazione di tale dramma nella precisa condizione psicologica della persona umana (tragedia della fatalità non del destino, ma della natura umana), ne smorzava il valore di rappresentazione dei rapporti piú vasti fra individuo e ordine universale a vantaggio del suo carattere psicologico di contrasto di passioni, di interno squilibrio fra volontà e istinto, fra lo sforzo di autodominio del personaggio e l’irresistibile impeto delle sue passioni.

Cosí il Gioberti[19], notando giustamente come nel Saul l’Alfieri esprimesse gli elementi piú profondi della sua autobiografia e della sua intuizione della vita umana, coglieva nella identificazione in Saul di tiranno e vittima (staccati e contrapposti nelle precedenti tragedie) un aspetto dell’approfondimento operato dall’Alfieri nella sua intuizione tragica, ma non svolgeva la sua intuizione, sia perché la risolveva solo nei termini della tragedia della tirannide che ricade su se stessa (Saul tiranno diverrebbe vittima della sua stessa volontà tirannica di assoluto dominio che lo induce alla sua lotta e lo conduce alla sua catastrofe[20]), sia perché non vide il vero rapporto di Saul-vittima con la superiore tirannide, rappresentata da quella «tremenda / mano» della divinità che imprime a tutta la tragedia il suo piú vero ritmo drammatico e condiziona centralmente la situazione disperata del protagonista. E lo stesso De Sanctis, che meglio di ogni altro critico si avvicinò al centro della tragedia, quando disse che in essa l’Alfieri «intravvide un ordine di cose superiore» e che in essa «Dio è il tiranno, e tutto l’interesse è per Saul»[21], ridusse la portata della sua interpretazione dando un valore troppo esterno e quasi meccanico all’intervento divino (quasi concessione allo schema alfieriano che postulava comunque la presenza di un tiranno e di una vittima) e lasciando una certa ambiguità in quella intuizione alfieriana di un «ordine di cose superiore» che l’Alfieri in realtà dolorosamente constatava, tragicamente, pessimisticamente rappresentava, ben lungi da un’accettazione reverente e giustificante (si pensi poi allo svolgimento della tragedia alfieriana verso la Mirra), ben lungi da una soluzione positiva della situazione umana, cui egli mai giunse né nella sua vita o nella sua meditazione extrapoetica, né tanto meno nella sua poesia, il cui potente carattere tragico nasce proprio da una posizione di crisi, non di soluzione[22].

Anche la critica contemporanea, posteriore al grande saggio crociano (che tanto rinnovò il problema critico alfieriano, facendo dell’Alfieri un “protoromantico” e dei suoi personaggi l’espressione del titanismo e del romantico sentimento individualistico), ha arricchito la interpretazione del Saul in varie direzioni: Calosso e Ramat nella esasperazione del motivo individualistico; Momigliano – in reazione anche a tale possibile esasperazione – nell’approfondimento della lotta interiore di Saul, della sua ricchezza di sensibilità umana e morale[23], sino a fare però del suo dramma un dramma puramente psicologico-etico, e concludendo per una finale vittoria della “nozione del giusto” sulla passione tirannica, sulla sete di potere, per un finale riacquisto di equilibrio e di autodominio; Fubini in una cauta composizione di “superuomo” e “uomo”, ad adeguare la singolare complessità del personaggio, cosí superiore ai personaggi piú monocordi e disumani di altre tragedie precedenti: Rosmunda o Eteocle; ma troppo facilmente riprendendo la tesi giobertiana della tragedia della tirannide[24]. Ma la critica ha in genere meno rilevato quello che è fondamentale motivo del Saul e che, nel suo potente valore di approfondimento centrale e universale dell’intuizione tragica alfieriana, salda e potenzia le varie componenti della tragedia che i critici hanno a volta a volta proposto come unico motivo caratterizzante di quel complesso capolavoro.

Capolavoro che, rispetto alla critica precedente, va piú risolutamente inserito nello svolgimento della poesia alfieriana, giunta alla sua piena maturità e capace di esprimere in maniera piú intera e centrale (e insieme in un momento singolare di attenzione tecnica e artistica che qui rivela la sua maggiore efficacia al di là dell’esperienza piú compromessa della Merope) il motivo essenziale del dramma alfieriano (dramma radicalmente spirituale e poetico, personale e storico), potenziato, articolato nei suoi elementi costitutivi, approfondito in una intuizione piú assoluta e di valore universale, concretato in un personaggio (e nella sua situazione e sviluppo) che, tanto piú ricco, rispetto ai precedenti eroi alfieriani, di una complessa vita di affetti, di una coscienza tanto piú sensibile e acuta della propria situazione, in se stessa e in rapporto con gli altri personaggi (e quindi scavato e graduato in una gamma complessa di stati d’animo e di disposizioni persino affettuose), è insieme dotato di una eccezionale forza personale, di una energia e di una tensione che ne fanno la figura piú gigantesca del teatro alfieriano.

In questo personaggio centrale, che soverchia con la sua statura poetica i personaggi che lo circondano (e che pure hanno anche una propria esistenza e una propria validità e funzione nella natura complessa della tragedia e nei rapporti con il protagonista), l’Alfieri realizzava una figura poetica (non il portavoce, il prestanome di una tesi e di un problema) in cui compiutamente si esprime la sua intuizione della situazione tragica dell’uomo eroico ed infelice preso fra il suo complesso mondo di aspirazioni e il limite della realtà, che in questo caso è rivelato nel suo carattere piú assoluto e profondo, eterno, impersonato addirittura nel tremendo potere del Dio biblico. E come il termine del limite trova qui il suo potenziamento estremo e universale (e si ripercuote in altre incarnazioni di tragico ostacolo all’azione di Saul, quali sono i sacerdoti, e in piú intime forme di sentimenti e di immagini contro cui il tiranno-vittima lotta entro di sé: il peso della vecchiaia, il rimpianto della forza perduta, lo stesso affetto per i figli che si traduce a volte in ostacolo alla sua volontà di morte liberatrice), cosí il termine dell’individuo in lotta per la sua libertà, per la sua affermazione, trova il suo potenziamento nella figura grandiosa del re ebraico, tanto disperatamente teso a forzare la sorte che lo condanna, a superare i limiti che lo circondano e di cui egli intuisce l’origine superiore e divina. E insieme, nella sua caratterizzazione e nella sua vicenda, vengono potenziati e approfonditi quei due momenti essenziali della tragedia alfieriana, di lotta e di catastrofe (e soprattutto di coscienza dolorosa della catastrofe e della sua ineluttabilità) che nel Saul sono singolarmente arricchiti dalla vibrazione e oscillazione drammatica del personaggio fra volontà eroica e consapevolezza della propria sorte finale (donde il desiderio della morte liberatrice che vive sempre nella zona piú profonda dell’animo di Saul), fra impulsi volitivi che giungono all’esaltazione e ad impeti di furia sterminatrice, e improvvisi crolli disperati, momentanee concessioni al compromesso e all’abdicazione, subito smentita da nuovi impeti. Sicché nella linea dinamica e complessa di questa vicenda, che pur tende vigorosamente verso la catastrofe, verso l’ultimo incontro, nella morte, di volontà eroica e di suprema delusione (in un intreccio e in un rilievo possente, superiore a quello delle precedenti tragedie alfieriane), si inseriscono pause elegiache, momenti affettuosi, desideri e rimpianti di pace. E la vibrazione cosí profonda e complessa del protagonista si assicura sempre, nei suoi poli di tensione, alla centrale situazione del dramma, alle condizioni fondamentali dell’individuo sottoposto, e ribelle, al peso immane che lo limita e lo tormenta.

L’Alfieri parlò nel suo Parere della «perplessità» come di «uno dei maggiori segreti per generar commozione e sospensione in teatro» e di un procedimento che egli «forse per la natura sua poco perplessa, non intendeva [...] nelle prime sue tragedie» e non aveva saputo ben adoperare nelle seguenti fino al Saul («in cui l’ha adoprata per quanto era possibile in lui»[25]).

Se la parola può indurre ad una certa confusione con la vera e propria «perplessità» settecentesca, melodrammatica e patetica, cosí diversa e cosí diretta alla felice mèta del “lieto fine”, e se l’Alfieri indulgeva poi ad una immagine di se stesso troppo rigida e volontaristica quando si diceva di «natura poco perplessa» – o sentiva in questo caso l’improprietà dell’applicazione della parola piú metastasiana al proprio animo vigoroso e appassionato –, certo quel giudizio è ben adatto a indicare come il Saul si distingua dalla precedente produzione alfieriana (e specie dalle prime tragedie piú schematiche e a rigido contrasto, con personaggi piú monotoni) per la sua intensissima vibrazione, per le profonde oscillazioni che dall’interno del personaggio centrale e dalla sua situazione ed azione si ripercuotono in tutta la linea intensa, complessa e fortemente articolata di tutta la tragedia.

E questa, se è caratterizzata dall’eccezionale potenza e complessa vibrazione del personaggio centrale, lo è anche da una nuova varietà di toni e motivi che corrisponde non solo alla nuova ricerca dell’Alfieri di arricchire la sua espressione artistica (e il soggetto biblico si prestava singolarmente, com’egli dichiara nel Parere, a tale esigenza[26]), ma, anche piú intimamente, alla maggiore complessità della sua intuizione tragica, alla maggiore effettiva ricchezza del suo mondo sentimentale e poetico, al suo bisogno di dar vita ad un nuovo rapporto fra il personaggio centrale e i personaggi che lo circondano, fra il mondo di Saul e il mondo minore con cui egli è in relazione di contrasto e di contatto, nel suo potente ondeggiamento di impeti superbi e di abbandoni, di sdegni e di momentanee inclinazioni affettuose: ulteriore conferma, fra l’altro, della genuina vocazione tragico-teatrale della poesia alfieriana su cui io ho sempre insistito[27].

Il mondo minore è accomunato dal suo rapporto con Saul, che lo turba e lo fa partecipare al ritmo tragico che nel protagonista ha il suo centro essenziale, e insieme da un atteggiamento di fiducia in Dio, di accettazione della sua legge e della sua giustizia: espressione di una vita che senza la presenza di Saul sarebbe sostanzialmente sicura e a suo modo idillica, compatta, corale, e delle cui ragioni e modi di esistenza l’Alfieri volle pure qui rendersi interprete, anche se con risultati vari e meno intensamente poetici di quelli che vengono raggiunti nella perfetta rappresentazione del protagonista e del suo mondo tempestoso e ricchissimo.

Sicché questo mondo minore ha una sua generale comune fisionomia, specie nel gruppo di David, Gionata, Micol, e tuttavia si distingue poi nella diversa caratterizzazione dei personaggi, tanto piú capaci di vera vita poetica quanto piú – pur nella loro posizione sostanzialmente diversa da quella di Saul – essi sono disposti alla drammatizzazione, alla tensione tormentosa che in essi provoca il loro rapporto con il protagonista.

Cosí David, il fedele di Dio, il rappresentante piú intero del mondo che accetta la legge di Dio e incrollabilmente crede alla sua giustizia e alla sua protezione, rivela nelle sue caratteristiche di eroe fiducioso e perfetto (alla cui vicenda, anche se complicata dall’ira di Saul, è predestinata una mèta di vittoria e di successo) lo sforzo dell’Alfieri di rappresentare positivamente una posizione cosí lontana dalla sua e da quella di Saul[28], di dar voce ad una fede assoluta che trova solo a tratti espressioni piú alte e solenni, quasi eco di una meditazione su questo aspetto della vita fin allora inesplorato dal poeta. Come avviene nel verso con cui David commenta il turbamento del re abbandonato da Dio («Miseri noi! che siam, se Iddio ci lascia?»[29]). Ma piú generalmente, proprio in questa sua impostazione troppo lontana dalla vera aspirazione del poeta, si dimostra piú statico e distaccato da una vera partecipazione al dramma di Saul, troppo chiuso nella sua sicurezza, troppo poco animato da un sincero tormento, alla cui mancanza invano il poeta cercò di supplire puntando sulla condizione di David perseguitato dall’ira di Saul, costretto alla lontananza dalla moglie Micol, strappato alla dolce fruizione di una vita di affetti patriarcali e familiari che costituiscono il fondo piú tenero e poetico di questo mondo minore, e la cui privazione è tanto diversamente drammatica nella situazione disperata di Saul, tanto piú intima ed elegiaca nella vita dolente e patetica di Micol. Questa componente in David è poco efficace, trovando ostacolo alla sua possibilità di vibrazione piú genuina nell’autocontrollo troppo lucido del personaggio, nella sua certezza quasi fanatica nel proprio successo voluto da Dio, e semmai finisce a volte per scadere in una certa aria di vittimismo piú languido, in una immagine troppo ripetuta e pittoresca (David che Saul va «perseguendo per caverne e balze»[30]), in una certa intonazione tenorile e patetica poco profonda, che retoricizza le sue invocazioni alla morte (ed egli nell’azione tragica scompare, sfugge – perché cosí vuol Dio che lo preserva al successo e al trono – proprio a quella suprema battaglia di cui egli tanto ha parlato nel corso della tragedia) e gli stessi patetici incontri e dialoghi con Micol.

E tuttavia, malgrado i limiti accennati, anche questa figura, necessaria alla tragedia di Saul e alla vita ben piú sicura di Gionata e soprattutto di Micol, porta elementi importanti nella tragedia, fissa il punto estremo della vastità del mondo che vi è rappresentato, sottolinea, pur nel suo pericolo di rigidità e di languore, alcuni aspetti essenziali nella costruzione complessa della tragedia; e mentre si rende necessaria al dramma di Saul (la sua gelosia per David, l’ondeggiamento fra amore, ammirazione e piú intima e sincera avversione), precisa il contrasto fra la sua linea piú sicura e lucida e quella tanto piú tumultuosa e violenta del protagonista, e d’altra parte costituisce l’appoggio piú chiaro del mondo minore, un polo di fiducia e di affetti (e di trepidazione per la sua sorte) nella vita poetica di Gionata e Micol.

Gionata ha in comune con David la fede in Dio e un giovane fervore, ma diversamente da lui, nella propria parte meno rilevata e pure piú intima e congeniale all’ispirazione alfieriana, quel fervore piú ingenuo (che agli occhi smagati di Saul apparirà persino stolto) si unisce con la sua pura natura di vittima, con la sua devozione gentile e sensibile a David, con il suo amore paziente e filiale per Saul. E la sua figura cosí caratteristica di questo mondo minore per la stessa umanità media, non eccezionale, anche se nobile e generosa, realizza con grande efficacia poetica una gradazione intermedia fra la sicurezza di David e la trepidazione piú aperta di Micol. E se la sua impostazione iniziale non è tragica (ed egli è ben partecipe di una vita patriarcale e semplice nella propria qualità di guerriero abituato a eseguire i voleri del padre re e di David, chiuso in un cerchio di affetti essenziali e poco complicati), la sua anima è tormentata dall’urto fra le persone che ama, dall’ira di Dio contro il padre (ira che non discute, ma che lo colpisce attraverso la sorte del padre amatissimo, e venerato come re), dalla collera stessa e dalla diffidenza del padre; e ben tragica e poetica è la sua fine in battaglia, dove egli cerca la morte, disperato di non aver potuto impedire al padre gli atti che egli considera empi e folli (strage dei sacerdoti, persecuzione di David prima della battaglia) e di aver tuttavia perduto l’amore e la confidenza da parte del padre.

Poeticamente compiuta e ancor piú ricca di quegli elementi affettuosi ed elegiaci che l’Alfieri aveva già espresso nella figura di Merope (e che qui si ricollegano alla vasta, coerente rappresentazione di un mondo familiare e patriarcale ed hanno insieme una maggiore capacità di animazione drammatica nel loro inserimento in una situazione tanto piú schiettamente tragica) è la figura di Micol, sposa, sorella e figlia, vittima come Gionata di un dramma che la investe e la fa vibrare nella sua natura tanto piú sensibile, nella sua disposizione femminile di compassione, di sollecitudine affettuosa, di tensione delicata e dolente verso le vicende tragiche dei suoi cari. In lei, ben piú che in David, vive poeticamente il dramma della separazione dallo sposo, la perdita della sua felicità coniugale, come in lei si ripercuote, piú profondamente che in altri, la tragica vicenda del padre, in cui essa piú d’ogni altro intende ed avverte, con la sua sollecita, penetrante attenzione, lo stato d’animo disperato, la fondamentale impossibilità di vivere, la segreta decisione suicida. E a lei sono affidate le supreme parole di addio al padre prima della sua morte, a lei è assegnata l’espressione di quel tema della compassione per l’eroe infelice che è pur nuovo ed essenziale in questa potente e umanissima tragedia.

Meno scavati e poetici sono gli altri due personaggi della tragedia: Achimelech e Abner. Il primo, legato soprattutto ad una fase particolare della tragedia, è figura piú estrema: nel suo fanatico orgoglio sacerdotale sembrano accentuarsi fino all’enfasi le caratteristiche piú rigide di quel mondo sicuro nella fedeltà a Dio che osservammo anche in David, e che pure nella scena in cui Achimelech compare hanno una funzione drammatica nello scatenare la furia di Saul, nel provocare il suo impeto di collera, di crudele ironia, di appassionata invettiva contro l’aspetto per Saul (e per l’Alfieri) piú odioso di una casta sacerdotale intransigente nell’imporre, insieme con quella di Dio, la propria volontà e potenza. Il secondo è poi piú marginale rispetto al mondo dei personaggi minori, dai quali lo distingue una mentalità interamente mondana e politica di guerriero e di ministro, completamente chiuso ad ogni suggestione soprannaturale e religiosa, ed anzi volto (piú ancora che per perfidia, per una soluzione coerente alla sua mentalità politica) a identificare nei sacerdoti (e in David, eroe sacerdotale) il vero ostacolo alla potenza di Saul. Comunque egli (che porta, in questo senso, un arricchimento alla complessità della tragedia come personaggio intermedio fra il mondo dei devoti a Dio e gli aspetti piú politici di Saul) non ha una vita poetica intensa e si può avvertire qualche stridore, se non fra la scellerata perfidia che gli attribuiscono Gionata, David e Micol e la luce di fedeltà e di affetto verso Saul che lo illumina nell’ultimo incontro con il suo re[31], certo fra questo suo sviluppo piú poetico e la figura piú grigia che gli riconoscevamo nelle precedenti parti della tragedia.

Come questa tragedia si presenta singolarmente complessa e ricca di motivi e personaggi, cosí essa si articola, rispetto alle precedenti tragedie alfieriane, in una linea particolarmente varia, mossa, con rallentamenti e progressioni piú sommesse e pausate, con impeti e crescendo di estrema potenza, con intrecci di temi e di toni che hanno il loro centro animatore nel nucleo potente rappresentato dal protagonista, ma che arricchiscono la tragedia in maniera veramente nuova, anche se con qualche momento meno intenso e con qualche pericolo di abbondanza, che può essere il corrispettivo negativo di questa espansione maggiore della fantasia dell’Alfieri, del suo sforzo di rappresentazione piú vasta e varia. Complessità che si riflette nel protagonista e nella sua azione, in una nuova attenzione persino al paesaggio e in una nuova varietà del linguaggio, tanto piú duttile nel seguire le varie intonazioni dei personaggi e delle situazioni.

E se la voce piú profonda e poetica è pur sempre quella di Saul e la grande poesia si apre nella tragedia solo con le prime battute di Saul all’inizio del secondo Atto (ed anzi la voce di Saul sembra venire da una zona tanto piú profonda e assoluta rispetto a quelle da cui sorgono le voci dei personaggi minori), sarebbe errato ridurre il valore della tragedia alla figura e alle parlate di Saul, operare un’assoluta antologia in un’opera cosí complessa, ma anche cosí organica; misconoscere il valore funzionale e integrante del mondo minore e considerare cosí il primo Atto, in cui Saul non appare direttamente, come un inutile impoetico antefatto, non intendendone insieme il carattere di rappresentazione del mondo minore nella sua particolare poesia, e di preparazione, per svolgimento e per contrasto, della grande figura di Saul, delle condizioni di rapporto di questa con i personaggi che nel primo Atto vengono appunto rappresentati nei loro elementi comuni, nelle loro caratteristiche individuali e nella loro relazione con Saul, la cui immagine già vive potente e variamente turbatrice nei loro dialoghi.

Cosí la figura di Saul è preparata e mediata in alcuni suoi aspetti dalle immagini che ne offrono i personaggi del primo Atto. Nella voce di David, il piú lontano da Saul, questi viene presentato nel suo aspetto di abbandonato da Dio e di tiranno; in quella di Gionata, piú pietosa, ingenua e filiale, nella sua condizione di infelicità e nella giustificazione insufficiente del suo stato come causato dai perfidi consigli di Abner; in quella di Micol, piú pura e delicata e profonda, piú che nei suoi furori nella sua solitudine disperata e nella sua malinconia, nei suoi abbandoni di pianto, nella sua impossibilità di sopravvivere, nel suo aspetto piú dolorosamente e intimamente umano.

E si osservi come la rappresentazione di questo mondo minore (concorde nella sua fiducia in Dio e nelle sue condizioni di normalità, di nobiltà e di purezza – un mondo in cui l’Alfieri tradusse la suggestione del mondo patriarcale e familiare biblico e la sua nuova attenzione ad aspetti meno drammatici della vita, al calore di affetti piú pacati ed umani –, nei suoi rapporti interni, affettuosi e solo turbati dalla immagine di Saul) e quella indiretta del protagonista si intreccino con arte sapiente e con il progressivo prevalere (ma sempre rallentato e pausato in una atmosfera meno carica e tempestosa di quella che andrà addensandosi dopo la comparsa di Saul sulla scena) della presenza turbatrice dell’immagine del re, e come lo stesso successivo intervento dei tre personaggi sia graduato non casualmente in un processo di arricchimento e integrazione delle loro note caratteristiche, in un incontro sempre piú complesso di voci. Prima il monologo di David (prima scena), che precisa le condizioni native di questo mondo minore e le caratteristiche del personaggio (e offre la prima immagine di Saul vista dall’occhio del fedele di Dio e dell’innocente perseguitato); poi l’incontro e il dialogo fra David e Gionata (seconda scena), in cui si sviluppa la rappresentazione del mondo minore nella sua ricchezza di affetti familiari, di fiducia religiosa, di nobiltà guerriera, e Gionata porta i suoi accenti piú puri e appassionati, l’immagine piú complessa e affettuosa di Saul; infine l’apparizione di Micol, il cui incontro patetico con David è preparato da un breve dialogo con Gionata (terza e quarta scena). E qui le tre voci si intrecciano e si espandono compiutamente nel piú complesso giuoco dei loro reciproci sentimenti, delle loro ansie e delle loro speranze, nel rilievo di ciò che hanno di comune e di diverso. E soprattutto le note piú delicate e profonde di Micol vengono qui ad arricchire il mondo minore di un sentimento piú intenso, sia nella direzione del suo casto amore coniugale drammatizzato dalla persecuzione di David da parte di Saul, sia in quella dell’affetto per il padre di cui essa intende acutamente, e con infinita pietà, la condizione disperata.

E questo svolgersi dell’Atto (in cui, nelle varie scene, si anticipano temi che poi la tragedia riprenderà con tanto maggiore forza nella rappresentazione diretta di Saul – e si pensi, ad esempio, all’iniziale tema della invocazione della morte in battaglia che, piú debole nella voce di David – «Ah! potessi oggi / morte aver qui dall’inimico brando!»[32] –, sarà ripreso poi con ben altro valore dalla voce angosciata e tragica di Saul – o si prepara l’ingresso dei nuovi personaggi nella tensione e nell’attesa affettuosa verso di loro da parte di quelli che son già sulla scena) è accompagnato da una mirabile preparazione del luogo e soprattutto del tempo entro cui si svilupperà poi l’azione: il monte Gelboè dove Saul cadrà suicida, la giornata fra l’albeggiare e la notte.

Questa attenzione al tempo, all’ora che passa e che incalza, era già viva nell’Alfieri delle precedenti tragedie, ma qui è piú assidua e poetica, piú graduale ed efficace. E proprio nel primo Atto tale attenzione si rivela piú esplicitamente, fra la prima invocazione di David alla notte che sta cedendo al giorno, l’arrivo di Micol che Gionata percepisce dal biancheggiare della sua veste nell’incerta luce dell’alba, la diretta indicazione dell’«alba nascente» nelle parole di Micol e del completo “aggiornare” in quelle di Gionata (sc. 4).

Tema del giorno che nasce, della luce che sorge che, mentre sensibilizza in maniera suggestiva lo stato d’animo dei personaggi minori fra inquietudine e speranza, con una finale conclusione su note di aperta speranza (luce come simbolo della speranza che fuga le turbate immagini ossessive della notte[33]), e accompagna nel suo lento, sobrio sviluppo questo Atto piú sommesso, accentua anche la sua aura romita e silenziosa prima dello scatenarsi dell’impeto tragico e prepara, per contrasto e per svolgimento, la nota su cui si inizia il secondo Atto e la prima parlata di Saul: «Bell’alba è questa».

Infatti in questo atteggiamento di attenzione al giorno che sorge, e su di un iniziale movimento di speranza, che consuona (e si distingue però subito) con quello che aveva chiuso il primo Atto, ci si presenta Saul. Ed egli ci si presenta anzitutto (proprio attraverso questo atteggiamento e il suo ansioso indagare l’alba che sorge e l’incertezza che subito incrina un primo moto di sollievo e una prima volontà di rasserenamento) nella coscienza dolorosa della sua situazione; quella coscienza che in Saul è elemento fondamentale, e ne umanizza e ne approfondisce il carattere tanto piú sicuramente di quanto avviene in altri personaggi alfieriani mossi dall’impeto titanico della volontà di potenza e di affermazione personale, rappresentati tutti nella loro furia di azione o rivelati in questo aspetto piú consapevole e profondo solo in un improvviso, finale lampo di delusione e di autocoscienza: come avviene soprattutto in Filippo, la cui nota piú intima («Ma, felice son io?»[34]) fu frutto di una piú tarda elaborazione di quella giovanile tragedia, quasi un’intuizione cui l’Alfieri giunse solo nella piena maturità, nell’epoca in cui egli rivedeva le sue prime tragedie dall’altezza conquistata negli anni dal Saul.

Questa battuta, a cui non a caso l’Alfieri affidò la prima presentazione del suo personaggio (meditazione tragico-elegiaca prima dell’azione, momento di autocoscienza prima della lotta disperata ed eroica), ci rivela un carattere essenziale di Saul, e mentre essa conforta un’interpretazione ben piú complessa di quella romantica e veristica del re folle, della tragedia della pazzia[35], essa insieme riconduce, piú che all’unico motivo della coscienza di Saul in senso precisamente etico (l’urto fra la nozione del giusto e le sue passioni che è proprio dell’interpretazione del Momigliano), al carattere piú alfieriano di tale coscienza, che è sempre soprattutto la coscienza dolorosa che l’individuo superiore e titanico (anche se ricco di elementi di affetti, di generosità che completano Saul di fronte ad altri personaggi alfieriani piú rigidi e monocordi) ha della propria situazione infelice, della invincibile forza del limite, della disparità fra i suoi desideri e la realtà, e che colora la sua stessa lotta tenace (per affermare se stesso, per uscire dalla sua situazione) di una tetra, amara luce di presentita disfatta, di anticipata immagine di catastrofe.

Tale coscienza è fondamentale in Saul e rende la sua azione tanto piú tragica e complessa in quanto ogni suo sforzo, ogni sua illusione (e mai personaggio alfieriano era stato cosí tenace ed energico nel volere e nel tentare di forzare i limiti ostili che lo rinserrano) nascono in un animo che, mentre agisce con la massima energia, pur sente a tratti, piú in profondo, la difficoltà e addirittura l’inanità della sua azione.

Tutta la prima parte dell’Atto secondo è in tal senso essenziale per l’interpretazione di tutta la tragedia, e la poesia vi raggiunge alcuni dei suoi momenti piú alti nel successivo svolgersi della personalità di Saul dal suo iniziale monologo, che lo innalza solitario e gigantesco, ai dialoghi con Abner e poi con i figli: dialoghi in cui sul movimento di affetto e di colloquio prevale sempre il distacco superiore di Saul nella sua coscienza piú lucida e profonda, nell’onda della sua possente elegia.

Le prime parole, l’immagine dell’alba e del sole che «in sanguinoso ammanto [...] non sorge»[36] (potente immagine che può subito mostrarci la nuova capacità della poesia alfieriana nel creare immagini sobrie e tragicamente giustificate, ma certo piú intensamente liriche di quanto avvenisse nel linguaggio delle precedenti tragedie), evocano subito per contrasto un’abitudine di vita tetra, dominata da immagini cupe e tenebrose. E la stessa frase che indica la diversità del nuovo giorno nascente («un dí felice / prometter parmi», vv. 2-3) rivela subito l’amara incertezza di Saul («parmi»), il suo dubbio sulla vera consistenza di una insolita condizione felice. E la stessa immagine di felicità subito risospinge il suo animo doloroso nel ricordo e nel rimpianto di un tempo felice perduto, della giovinezza e della forza, della potenza, della sicurezza della vittoria:

Oh miei trascorsi tempi!

Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava

Saúl nel campo da’ tappeti suoi,

che vincitor la sera ricoricarsi

certo non fosse.

(vv. 3-7)

E in questo profondo movimento elegiaco (in cui l’Alfieri condensa l’antefatto della tragedia, la narrazione biblica del periodo felice di Saul re vittorioso e senza rivali, animandola in una forma tragico-elegiaca di grandissima efficacia) il dramma di Saul comincia a chiarirsi nella lirica meditazione del protagonista, sviluppandosi poi quando alle parole incoraggianti e superficiali di Abner il re oppone la disillusa coscienza della propria situazione, prima nel peso della vecchiaia (componente validissima della tragedia di Saul e del suo carattere, ma non certo motivo centrale della tragedia come apparve a qualche critico frettoloso[37]), poi nella consapevolezza dell’origine piú vera delle sue sventure: l’ira e l’abbandono di Dio. Proprio la precisazione di quella «terribil fonte» (non David o i sacerdoti contro cui Abner cerca di incitarlo, coerentemente alla sua diagnosi piú superficiale e puramente politica, provocando invece le sue risposte tanto piú profonde e contribuendo cosí ad accrescere la superiorità del protagonista di fronte ai personaggi minori e a giustificare d’altra parte la confessione di Saul in maniera piú drammatica di quanto avverrebbe in un puro e semplice monologo) conferma l’importanza profonda che ha nella coscienza e nel dramma di Saul la netta, sicura individuazione dell’invincibile forza che lo opprime (non dunque pura tragedia politica – la tirannide il cui peso ricade su se stessa – o etica – la lotta fra la nozione del giusto e la passione di potenza) e stimola Saul alla piú alta e complessa rappresentazione poetica del suo stato, di cui tutti gli elementi vengono rivelati potentemente intrecciati, individuati in ciò che essi hanno di piú intimo e di piú tragico:

Ah! no: deriva ogni sventura mia

da piú terribil fonte... E che? celarmi

l’orror vorresti del mio stato? Ah! s’io

padre non fossi, come il son, pur troppo!

di cari figli, ... or la vittoria, e il regno,

e la vita vorrei? Precipitoso

già mi sarei fra gl’inimici ferri

scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca

cosí la vita orribile, ch’io vivo.

Quanti anni or son, che sul mio labro il riso

non fu visto spuntare? I figli miei,

ch’amo pur tanto, le piú volte all’ira

muovonmi il cor, se mi accarezzan... Fero,

impazïente, torbido, adirato

sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui;

bramo in pace far guerra, in guerra pace:

entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;

scorgo un nemico, in ogni amico; i molli

tappeti assirj, ispidi dumi al fianco

mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni

terror. Che piú? chi ’l crederia? spavento

m’è la tromba di guerra; alto spavento

è la tromba a Saúl. [...][38]

Tutta la tragica situazione di Saul è qui riassunta, e sotto il peso dell’abbandono e dell’ira celeste la grande figura vibra e si esprime in una autorappresentazione possente e lucidissima, perché Saul è dotato anche di un eccezionale potere autocritico. Il profondo istinto alfieriano di autoanalisi e di autoritratto viene trasferito nel personaggio e disposto tutto in funzione drammatica di tormento e di contrazione dinamica della figura che si esamina e si rappresenta nel proprio interiore tumulto, nella tensione disperata verso un’azione risolutrice (la morte in battaglia), nel suo doloroso rapporto con gli altri, nell’ondeggiare fremente del suo animo fra bisogno di affetto e diffidenza, fra la malinconia e l’ira.

E questa prevale a poco a poco nel suo discorso e lo svolge in un imperioso passaggio dalla rappresentazione da parte di Saul del suo stato alla sua attuazione, nell’impeto di collera con cui si rivolge al suo interlocutore, anticipando quell’altro essenziale elemento del personaggio che è la furia contro tutto e contro tutti, l’ansia di affermare la sua vacillante potenza con un’azione violenta, la cui energia frenetica è pari al senso doloroso della sua solitudine, della sua inevitabile sconfitta.

E si noti come l’altissimo sforzo tragico-lirico sia atteggiato in forme dinamiche e drammatiche, come la parola che recupera, con eccezionale intensità poetica, elementi di elegia, di patetico autocompianto, di dolcissimo affetto (i «cari figli»), sia sempre apertamente o potenzialmente parola-azione e volga quegli stessi elementi ad una funzione tragica, ne faccia a lor modo altrettanti dolorosi limiti, e lo stesso amore per i figli sia sentito come vincolo che impedisce a Saul di attuare il suo desiderio di morte (unica vera soluzione al suo stato, unico modo di liberazione e di affermazione eroica della sua personalità), contro cui urta l’animo impetuoso, indomito del personaggio. Né la parola indugia nei toni elegiaci, malinconici, affettuosi, risolvendoli invece in un potente intreccio a crescendo di intensità, cui contribuisce il ritmo incalzante, “precipitoso” che travolge ogni pausa (pur chiaramente segnata) e movimenta la straordinaria ricchezza di accenti e di cadenze[39] in una struttura impetuosa, ma tanto piú capace (rispetto alle possibilità del precedente Alfieri) di superare l’intensità piú rigida delle brevi battute, in cui prima egli concentrava la sua forza drammatica.

Quest’altissima confessione tragica, questa rappresentazione che Saul fa di se stesso e della sua situazione, si completa quando Gionata e Micol sopraggiungono con le loro speranze (riconciliare il padre con David e con Dio, ricostituire l’unità del loro mondo familiare-patriarcale), e le loro parole affettuose e fiduciose sollecitano Saul a una nuova conferma della coscienza che egli ha della ineluttabilità della sua sorte, del suo insanabile dolore.

Prima, alle parole di pace di Micol e Gionata («Col re sia pace», «E sia col padre Iddio») egli opporrà, in un tono malinconico e stanco, la sua amara certezza e la volontà di accettare una battaglia che già si profila (in questa direzione piú profonda del suo animo disilluso) come sconfitta (e veramente la sconfitta incombe su tutta la tragedia come una delle sue note piú costanti, e con essa la catastrofe batte insistente come un leitmotiv implacabile e ossessivo):

... Meco è sempre il dolore. – Io men sorgea

oggi, pria dell’usato, in lieta speme...

Ma, già sparí, qual del deserto nebbia,

ogni mia speme. – Omai che giova, o figlio,

protrar la pugna? Il paventar la rotta,

peggio è che averla; ed abbiasi una volta.

Oggi si pugni, io ’l voglio.[40]

E poiché i figli insistono nel presentargli immagini di vittoria e di pace familiare dopo la vittoria (Gionata guerriero insiste sulla vittoria, Micol sulla pace familiare), Saul reagirà piú dolcemente a Micol (e chiarirà con una definizione di grande profondità poetica – «la stanca / mente appassita», vv. 142-143 – l’aspetto senile della sua condizione, la sua perdita di vigore, della fiducia e dell’avventurosità giovanile), piú aspramente all’ingenuo Gionata, che parla di letizia e di uno spirito celeste che riporterà la certezza di vittoria anche nel cuore del padre:

Or, forse

me tu vorresti di tua stolta gioja

a parte? me? – Che vincere? che spirto?...

Piangete tutti. Oggi, la quercia antica,

dove spandea già rami alteri all’aura,

innalzerà sue squallide radici.

Tutto è pianto, e tempesta, e sangue, e morte:

i vestimenti squarcinsi; le chiome

di cener vil si aspergano. Sí, questo

giorno, è finale; a noi l’estremo, è questo.[41]

Dopo lo sdegno superbo dell’uomo maturo alla morte, certo della sua triste certezza («me?»), superiore alle illusioni giovanili (voce profonda del pessimismo alfieriano), si alza il supremo canto funebre di Saul che fissa a se stesso il termine assoluto della sua vicenda, fra l’immagine potente e severa della quercia antica che innalza «sue squallide radici», abbattuta da una forza superiore, da una «tremenda / mano» che altrove Saul precisa esplicitamente[42] (immagine che traduce in grande poesia il senso grandioso della gigantesca e desolata personalità saulliana e realizza tragicamente l’ansia alfieriana di un linguaggio immaginoso sollecitato dalla lettura biblica, ma sfrondato di ogni esuberanza “orientale”, aliena dalla sua ispirazione concentrata) e la ribadita lapidaria affermazione del carattere decisivo della giornata, aperta fra speranze effimere e piú sicura coscienza pessimistica[43].

Altro canto funebre di fronte al quale le repliche dei personaggi minori scadono quasi in pettegolezzo, anche se Micol trova (nella parlata in cui propone al padre l’immagine consolatrice-turbatrice dei giorni passati nella pace familiare e nella solidarietà con David) una immagine sensibile e penetrante di Saul (che cosí vive anche nelle parlate dei personaggi minori, in gradazioni piú affettuose e riflesse) nel suo aspetto malinconico, nella consuetudine di una vita infelice, in una fantasticheria di incubi e di immagini funeree:

Nell’ore tue fantastiche di noja,

ne’ tuoi funesti pensieri di morte.[44]

Su questa immagine, che arricchisce la figura di Saul in un atteggiamento intimo e meditabondo, in una disposizione meno agitata e fremente (la malinconia e la noia oltre l’angoscia e la furia con cui egli tenta di spezzare i vincoli della sua situazione), si esaurisce la forza poetica piú profonda di questa parte del secondo Atto in cui abbiamo conosciuto l’animo complesso di Saul, prima di vederne la conseguenza attiva, il movimento della sua figura, la lotta con cui Saul cerca di uscire dal cerchio che lo limita e di salvare o interamente o in parte i valori della sua vita (regno, figli, dignità di re e di eroe), ora scagliandosi contro gli avversari piú diretti e raggiungibili (David, sacerdoti), ora accettando persino momentaneamente un compromesso, ora sentendo piú acutamente che l’unico mezzo di liberazione è la morte (e sperandola almeno eroica e gloriosa in battaglia), e spesso anche avvertendo l’inanità di ogni suo sforzo e il carattere empio dello stesso regno, della potenza che vuole mantenere ad ogni costo.

Nell’ultima parte del secondo Atto Saul è rappresentato in un primo ondeggiamento fra orgoglio personale, volontà tirannica, e affetti familiari, desiderio di pace, fra impeti e abbandoni stimolati dall’improvvisa apparizione di David (improvvisa apparizione che, teatralmente efficace, ha qualcosa di piú esterno e ben si adatta alla stessa impostazione di quel personaggio troppo concepito come rappresentante del «soprannaturale») e dalle reazioni suscitate in Saul dagli opposti sentimenti che prova per David: ingorgo fra gelosia e ammirazione, fra ricordo del David fedele a lui e del David rivale e protetto da Dio (ma in fondo prevale l’avversione per un personaggio cosí diverso da lui, cosí sicuro, cosí fiducioso e cosí solidale con la «terribil fonte» delle sue sventure). Ma, se efficace è la rappresentazione di questo alternarsi di stati d’animo che non han raggiunto ancora l’oscillazione piú forte degli Atti successivi (in questa parte, in cui Saul è a piú diretto contatto con il mondo minore, si riflette una certa eco dell’atmosfera meno eccitata del primo Atto), lo svolgimento dell’azione ha qualche maggiore effetto di teatralità piú meccanica (l’espediente del lembo del mantello tagliato da David e prodotto come prova della sua lealtà e generosità), e la stessa accettazione da parte di Saul (mosso soprattutto dall’aspetto generoso del gesto di David, colpito nella sua magnanimità di re guerriero) di pacificarsi con il genero appare piú funzionale alla linea complessa della tragedia che non poeticamente convincente.

Tuttavia, proprio dal punto di vista della tragedia, dello svolgimento complesso (non rettilineo e a rigido sviluppo) del dramma di Saul e della sua «perplessità» (per accettare la parola che adoperò l’Alfieri), anche questa parte appare naturalmente necessaria perché rappresenta un primo ripiegamento di Saul, un tentativo da parte sua (sollecitato e agevolato dal calore affettuoso dei figli che in questa parte tanto piú direttamente lo investe) di salvare sé e la sua famiglia nella conciliazione e nel compromesso con David, e insieme rappresenta un momento di pausa, di distensione, che richiama il finale piú apertamente fiducioso del primo Atto e che prepara il brusco, impetuoso scatto drammatico del terzo Atto, quando Saul sembrerà quasi vergognarsi del compromesso cui è sceso e la linea tragica riprenderà tanto piú intensa dopo quella illusoria ed effimera conclusione blanda e rasserenante. Infatti nelle stesse parole decorose e poco intense con cui Saul conclude l’Atto, invitando David a riposarsi nel padiglione regale (in una certa aura patriarcale e familiare che non giunge però a piene forme idilliche), si può ben avvertire, proprio nella loro eccessiva compostezza, nella loro affettuosità compassata, un accento poco persuaso; e quando, negli ultimi versi, Saul prega la figlia che «ammendi in parte / del genitor gli involontarj errori» (sc. 3, vv. 347-348) con le sue attenzioni affettuose al marito da lui perseguitato, la forma controllata del discorso tradisce una concessione che non sale dal profondo. Del resto in quegli «involontarj errori» si può pur riconoscere un Saul non pentito, ma solo momentaneamente placato, restio a riconoscere una vera e propria colpa di fronte a quel Dio di cui egli sentirà sempre soprattutto la vendetta inesorabile piú che la giustizia, per la sua disobbedienza all’ordine crudele di uccidere il vinto re degli Amalechiti.

Ed infatti il terzo Atto ci riporta (dopo questa effimera calma che si prolunga nelle prime due scene, nel colloquio di Abner e di David che si consultano sul piano della prossima battaglia: scene abili ed efficaci nell’estendere questo clima di conciliazione e di accordo, sotto cui però fremono piú la diffidenza di David e nell’ironica condiscendenza la rivalità e il disprezzo di Abner[45]) ad un Saul adirato e sconvolto, nella scena terza, attraverso le immagini che ne offre Micol nel suo appassionato dialogo con David. Dialogo che porta, prima della nuova parte piú diretta ed intensa, una prima vibrazione del nuovo stato di Saul in quel mondo minore che credeva ormai realizzate le sue speranze e che ora viene di nuovo investito e turbato dall’onda impetuosa del dramma di Saul. Il quale, piú che dai consigli e dalle insinuazioni di Abner (come appare del resto soprattutto da quanto Micol ne riferisce a David), è naturalmente portato a discostarsi dal compromesso contrario alla sua natura e al piú vero dilemma della sua potenza o, come egli stesso sente piú sicuramente, sconfitta e morte.

Nel nuovo incontro con i figli e con David (scena quarta) Saul non ascolta neppure piú i loro vani conforti, assorto com’è nel suo lugubre fantasticare, immerso nella sua sensibilità eccitata:

Chi sete voi?... Chi d’aura aperta e pura

qui favellò?... Questa? è caligin densa;

tenebre sono; ombra di morte... Oh! mira;

piú mi t’accosta; il vedi? il sol d’intorno

cinto ha di sangue ghirlanda funesta...

Odi tu canto di sinistri augelli?

Lugúbre un pianto sull’acre si spande,

che me percuote, e a lagrimar mi sforza...

Ma che? Voi pur, voi pur piangete?...[46]

Saul è ora completamente chiuso nel suo dramma, nella sua angoscia tanto piú forte dopo l’illusoria pacificazione che egli sente impossibile, assurda, e lo stesso paesaggio lugubre, ossessivo è ormai la proiezione stessa del suo profondo turbamento, dei suoi «funesti pensieri di morte», della sua coscienza della sconfitta che, cosí salda nel fondo del suo animo, si veste di foschi colori, emerge in forme piú istintive, irrazionali, quasi vaneggianti, coerenti al nuovo atteggiamento del protagonista in cui (senza parlare di follia nella sua pura accezione patologica, ché il turbamento di Saul è nient’altro che l’estrema accentuazione del suo dramma, degli impeti e abbandoni del suo animo fra il senso piú sicuro della sua situazione e la volontà tenace che cerca in ogni modo di superarla) sempre piú si accentua la diffidenza verso tutti, l’amaro senso dell’ostilità di Dio e dei suoi rappresentanti (David e i sacerdoti), la gelosia per il fortunato rivale, la disperata volontà di riaffermare la sua forza e il suo potere. E non certo in un’assurda conciliazione, ma in un nuovo tentativo, piú coerente alla sua natura bellicosa e individualistica, di abbattere con la violenza tutto ciò che lo ostacola, ciò che renderebbe inutile lo stesso recupero della grazia divina se egli dovesse dividere con David il suo regno e se dovesse continuare a dipendere dall’arbitrio dei sacerdoti, perfidi, interessati intermediari fra lui e la divinità. La malinconia cede all’ira, la vittima si ribella e riprende il suo aspetto di tiranno nei confronti dei suoi piú immediati nemici, gli stessi figli appaiono a Saul alleati dei suoi nemici quando tentano di calmare la sua collera, di frenare la sua crescente furia di sterminio, la sua volontà regale e il suo orgoglioso bisogno di assoluto, incontrastato potere («Chi mi rattien? [...] Chi a me resiste?», vv. 222-223).

Ma anche questi impeti potenti e tragici (tanto piú tragici perché fondamentalmente inani, intimamente incrinati dalla coscienza della loro inutilità che oscuramente vibra anche nei momenti piú eccitati dell’io tirannico, della volontà di potenza), che danno a Saul e alle sue parole sdegnose ed irate una potenza tanto superiore a quella delle preghiere affettuose dei figli e delle discolpe imbarazzate di David, si esauriscono nella parte finale dell’Atto. La linea della tensione attiva e combattiva di Saul viene interrotta per esser ripresa con nuova potenza nell’Atto quarto, dopo una nuova pausa che ne intensificherà il nuovo slancio. Ma ancora nel terzo Atto in Saul nuovamente affiora, dopo lo sforzo titanico e la tempesta della collera, il sentimento piú amaro della sua situazione infelice, della sua solitudine, della sua vecchiaia che gli appare insidiata dagli stessi figli, anch’essi, come lui, immaginati cupidi della corona e del regno. Sicché in un nuovo monologo Saul tornerà ad una nuova alta rappresentazione del suo stato infelice, del suo affetto tradito (uno dei “complessi” di Saul è il senso dell’abbandono, della persecuzione anche da parte di coloro che egli piú ama), e una voce potente e stanca, tragicamente elegiaca canta un nuovo compianto funebre, una nuova invocazione alla morte, sola liberatrice:

La pace

mi è tolta; il sole, il regno, i figli, l’alma,

tutto mi è tolto!... Ahi Saúl infelice!

Chi te consola? al brancolar tuo cieco,

chi è scorta, o appoggio?... I figli tuoi, son muti;

duri son, crudi... Del vecchio cadente

sol si brama la morte: altro nel core

non sta dei figli, che il fatal diadema,

che il canuto tuo capo intorno cinge.

Su strappatelo, su: spiccate a un tempo

da questo omai putrido tronco il capo

tremolante del padre... Ahi fero stato!

Meglio è la morte. Io voglio morte...[47]

A questo punto si inseriscono i canti con cui David, approfittando della crisi di disperazione, di autocompassione di Saul, tenta di ricondurre il re alla conciliazione con cui si era chiuso il secondo Atto, stimolando in lui, col canto e con immagini propizie, sentimenti di pace, di accordo, di pietà familiare e religiosa, restaurando insieme la sua fiducia in una vittoria ottenuta, come nel passato, nella solidarietà con David e nel rispetto della volontà divina.

Non occorrerà insistere troppo a lungo sulla debolezza poetica dei canti in se stessi: infelice concessione dell’Alfieri al gusto del suo tempo, anche se egli credeva di rinnovare nel secolo «niente poetico, e tanto ragionatore» il valore di una poesia immaginosa e grandiosa e se obbediva alla sua volontà di varietà di toni, che ben diversamente viene attuata nella generale complessità della tragedia[48].

È questo un Alfieri che accetta impostazioni poetiche non sue, accatta moduli di linguaggio e cadenze ritmiche da testi letterari settecenteschi fra lirica alta di origine arcadica (velleità rinnovata nel neoclassicismo con mutuazioni dal gusto preromantico del sublime[49]) e idillismo canzonettistico arcadico, fra esempi del Filicaia, dei pindarici neoclassici, delle versioni bibliche e moduli cesarottiani[50], forme metastasiane e del librettismo melodrammatico piú scadente, che piú particolarmente stonano nella severa atmosfera poetica del Saul e sono come il surrogato piú deteriore della tenerezza affettuosa che nella tragedia ha ben altri risultati nella voce dei personaggi minori. E il turgore falso e la svenevolezza dei vari canti si riflettono nelle battute di Saul, cosí lontane dai toni piú genuini della sua voce profonda nella direzione eroica o in quella elegiaco-affettuosa[51].

I canti davidici hanno cosí una giustificazione nella linea della tragedia (di cui costituiscono comunque la parte piú debole, come una macchia di colore esterno, non alfieriano) in quanto servono (ma in maniera, in verità, quasi meccanica) a rappresentare un ulteriore ondeggiamento dell’animo di Saul in un fantastico vagheggiamento di nostalgia e di illusioni e, soprattutto, a provocare (dopo una pausa lunga in cui la forza del personaggio pare quasi assopita in un nuovo compromesso con il mondo non suo) un improvviso scatto tragico di Saul. Il quale, all’inopportuna evocazione da parte di David delle «due spade» del popolo ebreo (quella del re e la sua), si risveglia nella sua ira gelosa, nell’impeto della sua personalità offesa, intollerante di ogni limitazione del proprio potere. E scuote da sé le lusinghe del canto pacificatore del suo rivale, rifiutando anche le affettuose invocazioni dei figli, i quali chiudono l’Atto con l’affermazione della loro assoluta fedeltà e, nella voce pura ed elegiaca di Micol, con una nota limpida, con una clausola di superiore eleganza[52], in una luce discreta che attenua il bagliore violento della collera e del vaneggiamento del protagonista: una conferma, fra le tante, dell’arte squisita dell’Alfieri maturo nella gradazione dei toni della sua tragedia.

Anche l’Atto quarto si apre con un breve dialogo fra Micol e Gionata che si confidano le loro ansie, ma esso è subito interrotto dall’apparire di Saul, che in questo Atto domina completamente la scena e che, scartata ormai ogni concessione a soluzioni pacifiche (e quasi intimamente vergognoso di averle momentaneamente accettate), è ormai decisamente avviato sulla strada dell’affermazione violenta del suo potere regale, proteso nel tentativo di rompere con la violenza, con l’azione, i limiti che lo chiudono e lo tormentano.

La sua voce si è fatta imperiosa e dura (chiedendo a Micol di cercare David e di condurlo alla sua presenza, rimprovera superbamente le sue esitazioni con un comando da re, non da padre: «Il re parlotti, / e obbedito non l’hai?»; sc. 2, vv. 15-16), carica di diffidenza aspra e inquisitoriale (e il «Gionata, m’ami?», con cui inizia il colloquio con il figlio nella scena terza, suona piú che come richiesta di affetto come richiesta di assoluta obbedienza), di volontà assoluta nel rovesciare la sorte abbattendo i suoi nemici («“David fia ’l re.” – David? fia spento innanzi», v. 26).

Ed anche se in questo dialogo Saul si mostra ben capace di riflessione e di analisi della situazione (e quindi di vibrazioni piú profonde sotto l’impeto di volontà che lo spinge all’azione), anche questa analisi è svolta nella precisa conseguenza della necessità dell’azione e dello sterminio dei nemici: David soprattutto, che tanto piú odia quanto piú ne riconosce un certo fascino su di sé (la conseguenza è di nuovo odio, la certezza che David piacque ai suoi occhi, «ma al cor non mai») e che associa, nella sua ira implacabile, ai sacerdoti (come a «stromento [...] sacerdotale, iniquo»), ai quali riferisce l’origine della sua situazione, anche se egli intuisce piú in profondo che la vera origine è pur sempre la «tremenda / mano» di Dio, la vendetta è «della man sovrana» (sc. 3, vv. 41-58). A questa piú profonda coscienza (che poi lo renderà consapevole della inutilità dello sterminio dei sacerdoti) egli, in questo momento, cerca di sottrarsi adoperando la sua stessa forza di ragionamento, per convincersi della verità piú adatta alla direzione su cui egli si muove in questa parte della tragedia. In cui Saul è soprattutto il re assoluto, il tiranno che non ammette ostacoli alla sua potenza, e che è anche ben consapevole del carattere empio del trono, della logica spietata del potere che non permette esitazioni e debolezze da parte di chi regna. Come egli chiarisce quando rimprovera al figlio la sua debolezza, la sua disposizione a rinunciare alla sua successione al trono in favore di David:

Oh! che favelli? figlio

di Saúl tu? – Nulla a te cal del trono? –

Ma, il crudel dritto di chi ’l tien, nol sai?

Spenta mia casa, e da radice svelta

fia da colui, che usurperà il mio scettro.

I tuoi fratelli, i figli tuoi, tu stesso...

Non rimarrà della mia stirpe nullo...

O ria di regno insazïabil sete,

che non fai tu? Per aver regno, uccide

il fratello il fratel; la madre i figli;

la consorte il marito; il figlio il padre...

Seggio è di sangue, e d’empietade, il trono.[53]

E mentre cosí la figura di Saul si completa con questo nuovo elemento di consapevolezza della sua condizione di tiranno (e si noti la nuova efficacia poetica che l’Alfieri raggiunge mettendo in bocca allo stesso tiranno questa rivelazione terribile della logica barbarica e inesorabile della potenza[54]), la stessa energia feroce con cui Saul assevera questa amara verità (di cui sente insieme la tragica necessità e la dolorosa crudeltà) conferma come egli sia ormai deciso a seguire fino in fondo la via della violenza per tentar di salvare se stesso, il proprio potere (che lo attrae e lo fa insieme inorridire), la prosecuzione di se stesso nella propria famiglia.

Cosí, nella scena quarta, la sua decisione risoluta e la sua furia di sterminio di tutto ciò che ostacola il recupero della sua piena potenza di individuo e di re si risolvono nel colloquio tempestoso e feroce con Achimelech, il capo dei sacerdoti, nell’ordine di ucciderlo e di distruggere Nob, la città dei sacerdoti, di sterminare quella casta ostile e perfida.

Saul è ora tutto concentrato nel senso orgoglioso della sua dignità e potenza regale, e nel colloquio con il sacerdote, enfatico e sicuro nella sua missione di interprete della volontà divina, si rivelano la possibilità di scatto impetuoso, le caratteristiche di ferocia e di crudele ironia[55] che erano implicite nella natura complessa del personaggio, nelle sue componenti di tiranno e di individualità prepotente e intollerante di ogni diminuzione del proprio valore. E la stessa invettiva contro i sacerdoti (troppo spesso considerata come una tirata anticlericale estranea all’ispirazione del Saul), se pure riflette caratteri pratici di sfogo personale (legato alla situazione biografica dell’Alfieri nel periodo dei suoi patteggiamenti umilianti con i «pretacchiuoli» della corte romana e del suo bilioso riscatto nel Canto terzo dell’Etruria vendicata), contribuisce efficacemente, nella sua impetuosità, alla rappresentazione del re, furibondo e sdegnato contro una cosí insopportabile limitazione del suo potere. Mentre essa arricchisce ulteriormente la figura di Saul nei suoi aspetti di re e di guerriero feroce, ma nobile e bellicosamente generoso, nel suo disprezzo per i sacerdoti «in lino imbelle avvoltolati»[56], e viceversa potenti per le loro arti sottili e perfide, privi di ogni pietà per gli avversari vinti. Qualità di spietatezza dei sacerdoti che riconduce per contrasto l’invettiva di Saul all’esaltazione della propria magnanima generosità di re guerriero e al pieno rilievo (con quale vibrazione di commozione nel giustificare l’atto che lo ha perduto rendendolo disobbediente all’ordine dei sacerdoti e di un Dio che qui però egli non vuol chiamare in causa, tentando implicitamente di allontanarne la responsabilità tutta addossata ai suoi piú immediati nemici!) della sua pietà per il vinto re degli Amalechiti, la cui natura e la cui sorte risuonano nelle parole di Saul cosí allusive alla propria natura e alla propria possibile sorte:

A Samuél parea

grave delitto il non aver io spento

l’Amalechíta re, coll’armi in mano

preso in battaglia; un alto re, guerriero

di generosa indole ardita, e largo

del proprio sangue a pro del popol suo. –

Misero re! tratto a me innanzi, in duri

ceppi ei venia: serbava, ancor che vinto,

nobil fierezza, che insultar non era,

né un chieder pur mercè.[57]

L’eccitazione del contrasto vittorioso con Achimelech, il sapore della violenza esercitata e quasi gustata contro di lui («Or via, si tragga / a morte tosto; a cruda morte, e lunga», vv. 270-271), la riaffermazione del proprio assoluto potere nell’ordine di distruzione della città dei sacerdoti («Manda in Nob l’ira mia, che armenti, e servi, / madri, case, fanciulli uccida, incenda, / distrugga, e tutta l’empia stirpe al vento / disperda»[58]), la stessa suggestione delle immagini bellicose presenti nella invettiva contro i sacerdoti provocavano nell’animo di Saul una esaltata volontà di lotta e persino la fugace sua intensa fiducia nella vittoria. Ed esse si traducono nell’annullamento dell’ordine di battaglia predisposto da David e nell’immagine di un’alba radiosa di vittoria, a contrasto con quella, che pure insinua il suo ritmo piú stanco e malinconico, di una battaglia al cader della notte, quasi simbolo, supposto come malignamente immaginato da David, della decadenza di Saul:

Doman si pugni, al sol nascente; il puro

astro esser de’ mio testimon di guerra.

Pensier maligno, io ’l veggio, era di David,

scegliere il sol cadente a dar nell’oste,

quasi indicando il cadente mio braccio.[59]

L’esaltazione della propria riacquistata sicurezza e potenza, l’ebrezza della lotta, l’illusione di aver ottenuto un primo successo con lo sterminio dei sacerdoti tendono al massimo questa linea impetuosa della tragedia e del suo protagonista, in cui impeti e crolli vengono sempre piú portati ad un rilievo estremo, ad un alternarsi sempre piú incalzante.

Ed ecco che, dopo aver duramente rifiutato lo stesso aiuto di Gionata, che, atterrito dall’uccisione di Achimelech, tenta invano di placare la collera del padre e gli riafferma comunque la sua assoluta fedeltà («E solo io basto / a ogni pugna, qual sia. Tu, vile, tardo / sii pur domani al battagliare: io solo / Saúl sarò. Che Gionata? Che David? / Duce è Saúl»), è ricondotto dalla nuova battuta disperata di Gionata («Combatterotti appresso. / Deh! morto io possa su gli occhi caderti, / pria di veder ciò che sovrasta al tuo / sangue infelice!») a una immagine meno fiduciosa della prossima battaglia, e pur sempre coerente a questa eroica tensione personale: «E che sovrasta? morte? / morte in battaglia, ella è di re la morte»[60].

L’eccitazione lo sostiene ancora e nelle ultime brevi, intensissime scene dell’Atto, Saul allontanerà da sé Micol e Gionata (che dirà qui la sua ultima battuta, l’ultimo grido poetico della sua disperata, gentile personalità: «Padre, ch’io pugni / lungi da te?»), imporrà la sua volontà regale e il suo disperato bisogno di solitudine eroica:

Lungi da me voi tutti.

Voi mi tradite a prova, infidi, tutti.

Itene, il voglio: itene al fin; lo impongo.[61]

Ma, nella solitudine che prelude a quella in cui Saul rimarrà alla fine della tragedia nel supremo gesto del suicidio, questa stessa affermazione di superba sicurezza personale si svolgerà improvvisamente nell’amara, delusiva coscienza della sua effettiva infelicità, della sua squallida situazione di abbandono e di miseria:

Sol, con me stesso, io sto. – Di me soltanto,

(misero re!) di me solo io non tremo.[62]

Scomparse ormai le possibilità di pausa, di compromesso, di conciliazione che avevano caratterizzato la fine dei primi Atti (ma già quella del terzo si era risollevata in un impeto piú tragico), l’Atto quinto si apre nei termini assoluti della catastrofe inevitabile. Saul si è ormai coperto di sangue e di delitti, si è chiuso ogni via di uscita (del resto illusoria nella fatalità del suo destino, della sua situazione, della sua natura) che non sia la prova della battaglia e la liberazione nella morte coronata, ancora nel suo desiderio, se non dalla vittoria, dall’esaltazione della lotta, dello scontro con i nemici (e questo desiderio gli riserverà l’ultima delusione, della battaglia perduta prima che egli vi partecipi, della morte che dovrà ricercare nel suicidio a sconfitta avvenuta).

Tuttavia l’Alfieri volle ancora graduare l’ultimo momento della sua tragedia, preparare l’ultima gigantesca apparizione del suo eroe, l’ultimo suo tormento, le ultime vibrazioni piú profonde della sua lotta e della sua catastrofe, attraverso la nuova ripresa della rappresentazione del mondo minore nei suoi elementi piú patetici, affettuosi, e nella definitiva caduta delle sue speranze, se non della sua fiducia in Dio e nei propri vincoli patriarcali-familiari.

La voce di Micol, che invita David a uscire dal suo rifugio e a prepararsi alla fuga necessaria, porta il suo tono limpido, soave e mesto (come un preludio patetico e malinconico prima della musica tragica del finale) ed evoca la luce e le linee della scena notturna cosí coerentemente malinconica e in un’atmosfera di silenzio, di quiete prima della tempesta che squasserà la tragedia senza piú pause sino alla fine (e di qui sembra già avvertirsi una sorda, lontana preparazione nel lontano “romoreggiare” del campo):

Esci, o mio sposo; vieni: è già ben oltre

la notte... Odi tu, come romoreggia

il campo? all’alba pugnerassi. – Appresso

al padiglion del padre tutto tace.

Mira; anco il cielo il tuo fuggir seconda:

la luna cade, e gli ultimi suoi raggi

un negro nuvol cela. Andiamo: or niuno

su noi qui veglia, andiam; per questa china

scendiamo il monte, e ci accompagni Iddio.[63]

La poesia si fa piú continua e profonda anche in questa direzione di superiore tenerezza, di malinconia trepida che trova nella voce di Micol la sua espressione piú limpida e intima, e si carica lentamente di vibrazioni drammatiche, del tormento che pervade quella dolcissima figura femminile mentre essa vede sempre piú chiaramente delinearsi la catastrofe che investe e travolge gli oggetti del suo affetto e della sua profonda pietà: il fratello Gionata, la cui ultima immagine tragica compare nelle sue trepide e lucide parole («Anch’ei lo sdegno / provò del padre; e disperato corre / infra l’armi a morire», vv. 25-27); lo sposo, costretto a riprendere la vita dell’esilio e che essa non sa se potrà mai piú rivedere; il padre, contro cui essa prova un moto di sdegno per la sua persecuzione di David. Moto che subito si svolge in una piú profonda preghiera filiale per una sua vita felice, di cui essa però sente l’assurdità intuendo acutamente come la situazione di Saul non comporti una simile possibilità:

Ahi padre crudo!

Tu stesso, tu, la misera tua figlia

sforzi a bramare il fatal dí... Ma pure,

io no, non bramo il morir tuo: felice

vivi; vivi, se il puoi; [...][64]

Ma, mentre Micol è protesa nel doloroso commiato da David, il ritmo dalla tragedia si fa improvvisamente piú forte, e nelle sue stesse parole il “romoreggiare” lontano del campo che si prepara per la battaglia si cambia nel cupo, pauroso suono della battaglia che i Filistei hanno iniziato sorprendendo gli ebrei, e in mezzo alle impressioni atterrite di Micol compare Saul sconvolto, oppresso dall’incubo del sangue versato:

Ma, dal campo

qual odo io suon, che d’armi par?... Ben odo...

Ei cresce; e sordamente anco di trombe

è misto... E un correr di destrieri... Oh cielo!

Che fia?... La pugna anzi al tornar del giorno,

non l’intimò Saúl. Chi sa?... I fratelli...

Il mio Gionata... Oimè!... forse in periglio... –

Ma, pianto, ed urli, e gemiti profondi

dal padiglion del padre odo inalzarsi?...

misero padre!... a lui si corra... Oh vista!

Ei viene; ei stesso; e in quale aspetto!... Ah padre...[65]

Saul delira, il tormento del suo dramma si è complicato con il turbamento prodotto nel suo animo e nel suo subconscio dalla strage compiuta e, in un nuovo momento di cupa malinconia, di ripiegamento entro se stesso, dopo l’impeto dell’azione, questa rivela la sua inutilità, riversa su di lui il peso del sangue sparso, suscita immagini spettrali (vive solo nel suo delirio, non concretate in veri e propri personaggi soprannaturali): le ombre dei sacerdoti uccisi, non piú distinti dalla «infuocata spada / d’Iddio tremenda». E nel delirio Saul persegue un supremo, istintivo tentativo di scampo dal cerchio tremendo che lo chiude e che si sensibilizza nelle immagini sdegnate di Samuele, di Achimelech, degli altri sacerdoti uccisi e in quella di un gran fiume di sangue che chiude ogni passo tentato dalla sua fantasia eccitata.

Nelle tragiche oscillazioni del personaggio questo impeto delirante porta all’estrema evidenza poetica il turbamento di Saul, capovolge il suo bisogno disperato di liberazione dal proprio stato in un movimento di abdicazione, di rinuncia, pur di salvare almeno una parte di se stesso e del suo mondo d’affetti: i figli. E la sua figura gigantesca si abbassa a preghiere, a umiliazioni profonde e assolute come assoluta è qui la sua miseria infelice, come assoluta è poi la grandezza eroica a cui si risolleva quando, svanite le speranze di vittoria del quarto Atto, esaurito l’impeto delirante di abdicazione che ha trovato implacabili le ombre dei suoi avversari, Saul avverte il rumore della battaglia e si dispone a morire, a cercare nella morte quell’unico mezzo di liberazione che la sua coscienza piú profonda aveva sempre sentito come naturale soluzione del suo dramma:

Morir vogl’io, ma in campo.[66]

Una estrema speranza e una estrema volontà lo illuminano: non piú compromessi, non piú illusioni di vittoria; solo la morte in combattimento. E ad essa corre con le sue armi di re, con la sua imperiosa volontà regale, mentre invano Micol cerca di trattenerlo e l’eco della battaglia lo eccita con l’ossessivo, lacerante squillo delle trombe sempre piú vicine:

Squillan piú forte

le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando

basta solo. – Tu scostati, mi lascia;

obbedisci. Là corro: ivi si alberga

Morte, ch’io cerco.[67]

Ma anche questa speranza, in questo estremo intreccio di volontà eroica e di delusioni sempre piú assolute, sarà frustrata: la battaglia è già perduta, i figli sono morti combattendo, la sorte è decisa, e Saul dovrà morire suicida per sottrarsi all’onta della prigionia e agli insulti dell’«insolente vincitor». Tutto crolla intorno a lui nelle squallide, brevi, incalzanti scene finali in cui la tragedia libera il suo ritmo dagli avvolgimenti, dalla pause (dalle abbondanze anche, che qualche volta appesantiscono questo capolavoro) degli Atti precedenti, e precipita verso la catastrofe recuperando in forme piú rapide e risolutamente tragiche (nei brevi, assoluti incontri dei personaggi sopravvissuti, nelle loro battute inquiete e sollecitate dall’azione che li travolge) le note piú intime dell’elegia, della tenerezza affettuosa, della pietà che circonda Saul e da cui Saul si difende (e mentre se ne difende le rivela e le accentua in se stesso, nella sua ricca umanità[68]) per non cedere all’impeto di autocompassione, di intenerimento che sale dalla sua intensa sensibilità e che tanto lo distingue dai semplici tiranni, dai “superuomini” di altre tragedie alfieriane.

Mentre Saul corre alla battaglia gli viene incontro Abner, «con pochi soldati fuggitivi», che gli annuncia in parole pietose ed essenziali (anche Abner trova qui la sua luce piú poetica, il suo linguaggio piú profondo) la sconfitta, e la morte dei figli: notizie che, nella forma esitante e fratta con cui gli vengono comunicate, fan vibrare in Saul gli ultimi sussulti del suo sdegno e della sua diffidenza. «Sconfitti? E tu fellon, tu vivi» (v. 186), dirà Saul ad Abner, che ha voluto sopravvivere solo per salvare il suo re, mentre questi sdegna per sé una simile offerta di fuga e di sopravvivenza: «Ch’io viva, ove il mio popol cade?». E chiederà, fra diffidenza e trepidazione paterna: «Gionata... e i figli miei, ... fuggono anch’essi? / Mi abbandonano?». E dalla reticente risposta di Abner («Oh cielo!... I figli tuoi, ... / No, non fuggiro... Ahi miseri!») trarrà la sicura e terribile conseguenza: «T’intendo: / morti or cadono tutti»[69]. Egli si è fatto sempre piú lucido e sicuro nella risoluzione della morte («Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo: / e giunta è l’ora»[70]), nella squallida coscienza della sua assoluta infelicità, nella eroica volontà regale di affrontare da solo la morte in un’estrema affermazione della sua dignità, in un estremo contrasto con la potenza ostile che può infrangere, ma non domare la sua gigantesca personalità.

Allontanata Micol mentre «si appressan l’armi» (ed essa si tende in un’estrema invocazione senza risposta: «Padre!... e per sempre?» – mai come qui l’Alfieri raggiunge tanta potenza nell’incontro dell’azione e del tempo che incalza e brucia ogni indugio e la tensione degli affetti che ripugnano alla separazione definitiva, all’esito tragico della sorte dei mortali[71]), Saul rimane solo nella sua estrema prova di «infelice eroe».

Caccerà dal suo animo l’ultima intensa traccia di tenerezza («Oh figli miei!... – Fui padre. – »), commenterà rapidamente la sua tragica solitudine («Eccoti solo, o re; non un ti resta / dei tanti amici, o servi tuoi»), e si rivolgerà al suo antagonista piú vero:

Sei paga,

d’inesorabil Dio terribil ira?[72]

Non preghiera, non riconoscimento di giustizia[73], e neppure il completo svolgimento della persuasa, aperta denuncia del Leopardi («La man che flagellando si colora / nel mio sangue innocente»[74]), ma certo l’individuazione potente della forza superiore e inesorabile a cui risale l’origine delle sue sventure, del limite ferreo che invano Saul ha cercato di superare e di fronte al quale egli (mentre testimonia con la sua morte solitaria, abbandonata, fuori della ebbrezza della vittoria e persino della battaglia, la coscienza suprema dei personaggi alfieriani della invincibilità del limite e della inutilità dolorosa dei loro sforzi titanici) afferma ancora la sua dignità eroica, la sua volontà di suprema liberazione, la tragica grandezza degli uomini alfieriani, vinti, ma non piegati; capaci, nell’estrema sconfitta, di un ultimo ergersi impavido di fronte alla morte, non subita, ma voluta come prova suprema della loro ansia e possibilità di libertà e di affermazione.


1 La Merope fu ideata il 3 febbraio 1782, stesa dal 3 al 7 febbraio, versificata dall’11 giugno al 1° luglio. Il Saul fu ideato il 30 marzo, steso dal 2 all’8 aprile, versificato dal 3 al 30 luglio dello stesso anno.

2 «Cosí son nate queste due; spontanee piú che tutte l’altre; dividerò con esse la gloria, s’esse l’avranno acquistata e meritata; lascierò ad esse la piú gran parte del biasimo, se lo incontreranno; poiché a nascere e frammischiarsi coll’altre a viva forza han voluto. Né alcuna mi costò meno fatica, e men tempo di queste due» (Vita cit., I, p. 228).

3 Vita cit., I, pp. 301-302. Si ricordi che l’Alfieri recitò piú volte in casa sua a Firenze e in case di amici, ed anche come attore nelle proprie tragedie preferí soprattutto la sua «diletta parte del Saul». In quella frase «vi è di tutto di tutto assolutamente» si può notare il riconoscimento alfieriano della complessità di quella figura e di quella tragedia ed anche – a voler sottilizzare – il compiacimento di quella varietà e ricchezza di toni e di forme letterarie cui si deve anche il peso di parti meno riuscite, come i canti davidici, anche se importanti nella costruzione ampia e complessa della tragedia. Nel manoscritto della Laurenziana l’Alfieri scrisse: «E qui depongo il coturno per sempre» (cfr. Saul cit., p. 261), quasi a sottolineare l’impressione di aver con il Saul attinto l’espressione definitiva del suo poetico-tragico.

4 Saul cit., p. 66 (At. II, sc. 1, v. 41).

5 Dopo gli utili rilievi del Calcaterra sulla fonte biblica (Alle origini del «Saul» alfieriano, in Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna, Zanichelli, 1950, pp. 291-319), e il mediocrissimo lavoro di M. Baldini, La genesi del «Saul» di Vittorio Alfieri. Saggio critico, Firenze, Le Monnier, 1934, che puntò – con spirito di vecchio “fontismo” – sull’importanza del Saul del Nadal, P. Mazzamuto ha riportato l’attenzione sull’Oedipus e sull’Hercules furens senechiani (Le fonti classiche del «Saul», in Proposte sull’Alfieri, Palermo, Palumbo, 1957, pp. 5-44). Alcune delle vicinanze particolari indicate sono accettabili, ma inaccettabile è la conclusione del lavoro secondo cui l’Alfieri «non fa che rielaborare con pathos romantico un’anima classica, un’anima titanica e stoica, tutta congeniale al suo spirito di uomo e di poeta» (p. 37); e inaccettabili le affermazioni che fanno delle tragedie senechiane la «falsariga stilistica» del Saul e riducono la tecnica alfieriana a un «libero ricalco della tecnica senechiana».

6 Libro primo di Samuele o dei Re, cap. 18, versetto 1.

7 Essa è realizzata persino nella superiorità fisica di Saul, che «ab umero et sursum eminebat super omnem populum» (cap. 9, versetto 2).

8 La scena della battaglia finale è nella Bibbia di nuda e grande efficacia epico-narrativa: «Philisthiim autem pugnabant adversum Israël, et fugerunt viri Israël ante faciem Philisthiim et ceciderunt interfecti in monte Gelboë. Irrueruntque Philisthiim in Saul et in filios eius et percusserunt Ionatham et Abinadab et Melchisua filios Saul. Totumque pondus proelii versum est in Saul; et consecuti sunt eum viri sagittarii, et vulneratus est vehementer a sagittariis. Dixitque Saul ad armigerum suum: Evagina gladium tuum et percute me, ne forte veniant incircumcisi isti et interficiant me illudentes mihi. Et noluit armiger eius (fuerat enim nimio terrore perterritus). Arripuit itaque Saul gladium et irruit super eum» (cap. 31, versetti 1-4).

9 Cap. 16, versetto 14.

10 Cap. 22, versetto 8.

11 Cfr. Vita cit., I, p. 228, in cui l’Alfieri rivela l’«invasamento» che aveva ricevuto da quella lettura, lo stimolo che a lui venne dal «molto poetico» che ne poteva trarre, e ricorda che, se non si fosse opposto con il proposito di non superare ancora il numero di tragedie composte, «almeno altre due tragedie bibliche» gli «si affacciavano prepotentemente».

12 Nel Saul si compongono chiaramente anche nel linguaggio i riflessi della poesia biblica e della poesia ossianesca. E lo stesso atteggiamento di David salmista usufruisce dei moduli della poesia dei bardi ossianeschi, e la polimetria usata nei salmi davidici riprende il modello dei canti polimetrici che il Cesarotti inserí nella sua versione poetica dell’Ossian.

13 Naturalmente l’Alfieri, mentre non considerava qui gli aspetti piú positivi dell’illuminismo nel suo coraggio di verità e di spregiudicatezza, nella sua forza liberatrice dal dogmatismo e dall’autoritarismo (di cui egli stesso tanto aveva usufruito nella sua formazione), non calcolava, nella sua polemica contro il suo secolo, la presenza delle tendenze preromantiche, che venivano al pari di lui (anche se in forme piú moderate e compromesse) rivalutando il valore del sentimento, delle passioni, della poesia, esaltando proprio quei poeti primitivi e “sublimi”, come i poeti ebrei della Bibbia (a cui uno scrittore, come il Varano, aveva già attinto ispirazione) o come Ossian, che, proprio nella versione cesarottiana, aveva rappresentato un importante esempio di immagini e di cadenze poetiche per lo stesso Alfieri. Non solo in questo periodo numerose sono le versioni poetiche di libri biblici, ma sarà da ricordare che, proprio nell’ambiente romano, nel 1779 il Monti aveva esaltato, nel Discorso preliminare al Visconti, la poesia ebraica.

14 Ma quelle concessioni rappresentavano l’aspetto piú esterno di una esigenza di organicità lucida e coerente, di una chiarezza di rappresentazione e di tecnica che è pure essenziale nella poetica alfieriana, e permise all’Alfieri di sviluppare e articolare il suo potente nucleo poetico in opere sempre piú compiute e sicure, anche se quell’esigenza trovava (come la stessa adesione alle unità tragiche) la sua ragione piú intima nello stesso svolgimento della ispirazione alfieriana, che tende sempre piú alla graduazione o all’organicità complessa, alla distinzione e individuazione concreta delle proprie intuizioni poetiche. Si deve notare inoltre che le concessioni piú forti al gusto settecentesco di regolarità e di verisimiglianza son fatte dall’Alfieri soprattutto in sede critica, quando egli scende in discussione con i letterati del tempo e con il pubblico, come si può osservare nello stesso Parere sul Saul, nel quale le accuse sdegnose al secolo «niente poetico, e tanto ragionatore» sono controbilanciate dalla preoccupazione di dimostrare come la sua novità, la sua fedeltà a una concezione piú libera e originale della poesia fossero però comunque commisurate, quanto piú possibile, agli ideali di convenienza e di credibilità teatrale. E, d’altra parte, per il Saul e per la sua novità di rappresentazione del «soprannaturale» in teatro, l’Alfieri ammetterà che quella tragedia «non si abbia intieramente a giudicare come l’altre, colle semplici regole dell’arte», ma piú «su la impressione che se ne riceverà, che non su la ragione che ciascheduno potrà chiedere a se stesso della impression ricevuta» (Parere sulle tragedie cit., pp. 121-123). E certo il frutto piú vero dell’esercizio della Merope si può trovare nel I Atto del Saul o in genere nella rappresentazione ed espressione dei personaggi minori e poi nella Mirra.

15 Non solo nei canti di David, ma qua e là nella ripresa piú meccanica di moduli di linguaggio biblico ed ossianesco.

16 Saul cit., p. 128 (At. V, sc. 5, vv. 218-219).

17 A se stesso, vv. 14-15; Tutte le opere cit., I, p. 34.

18 De la littérature du Midi de l’Europe, tome III, Paris, Chez Treuttel et Würtz, 1813, p. 29.

19 Parallelo fra l’Alfieri e Shakspeare, in V. Gioberti, Studi filologici, a cura di D. Fissore, Torino, Tipografia torinese, 1867, pp. 151-157 (si può leggere anche in Id., Scritti scelti, a cura di A. Guzzo, Torino, UTET, 1954, 2a ed. riveduta ivi, 1966 (19742), pp. 450-457).

20 Questo aspetto di Saul è uno degli elementi della tragedia, ma non l’unico, ed essa non si può risolvere in pura tragedia politica (la sorte tragica del tiranno la cui volontà di potenza rappresenterebbe la sua stessa condanna, il motivo del suo tormento e della sua catastrofe), anche se indubbiamente tale elemento contribuisce potentemente allo svolgersi della tragedia e arricchisce la situazione del protagonista, dotato – piú di ogni altro tiranno alfieriano – della stessa dolorosa consapevolezza del carattere empio del potere («Seggio è di sangue, e d’empietade, il trono», At. IV, sc. 3, v. 99; Saul cit., p. 106), al cui possesso e mantenimento egli pure disperatamente tende.

21 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, 2 voll., Torino, Einaudi, 1958, II, p. 918.

22 Erronea è la tendenza confessionale, rappresentata soprattutto dal libro di G.A. Levi (Vittorio Alfieri, Brescia, Morcelliana, 1950), che falsa la genuina posizione alfieriana e vede nel Saul la promessa di uno svolgimento religioso, di un ritorno alla fede cattolica che in effetti non avvenne mai e che, se anche fosse avvenuto, sarebbe ugualmente fuori della vera intuizione tragica che della vita ebbe l’Alfieri, fuori della sua ispirazione e della sua realizzata poesia. Ben altro valore hanno nell’ultimo Alfieri certi atteggiamenti di considerazione della religione (e magari persino del culto cattolico) nella sua polemica antiilluministica e antivoltairiana, nella sua esaltazione dei valori del sentimento, della tradizione, di miti e credenze capaci di muovere gli uomini ad azioni generose ed eroiche: segni della sua rivolta romantica contro il secolo che egli giudicava razionalista ed arido, non di una precisa adesione a una precisa religione, non di un suo svolgimento in senso cristiano, ché oltre tutto l’Alfieri rimase sempre chiuso al valore supremo del cristianesimo: il senso del Dio-amore; e la sua stessa ansia di eternità (nelle ultime Rime) si confonde piuttosto nell’ansia di gloria: il suo cielo è un cielo di eroi e di poeti.

23 Cfr. V. Alfieri, Saul, interpretato da A. Momigliano, con un saggio introduttivo, Catania, Vincenzo Muglia Editore, 1921. Il Momigliano vide anche molto bene il rapporto di Saul con l’autobiografia alfieriana nell’accordo cosí importante di “ira e malinconia”.

24 Il Fubini (Vittorio Alfieri cit.) mise molto bene in rilievo il valore del mondo “minore” di David, Micol, Gionata.

25 Parere sulle tragedie cit., p. 124.

26 «Nessun tema [come quelli biblici] lascia maggior libertà al poeta di innestarvi poesia descrittiva, fantastica, e lirica, senza punto pregiudicare alla drammatica e all’effetto» (ivi, p. 121).

27 Alla tesi “lirica” del teatro alfieriano ho contrastato fin dal primo volume giovanile Vita interiore dell’Alfieri (cap. IV).

28 Ciò che l’Alfieri avrebbe voluto realizzare nella figura di David si può vedere dalla descrizione che ne fa nel Parere, certo piú vicina alle intenzioni e a una valutazione ottimistica che non alla sua realtà poetica: «David, amabile e prode giovinetto, credo che in questa tragedia, potendovi egli sviluppare principalmente la sua natia bontà, la compassione ch’egli ha per Saul, l’amore per Gionata e Micol, ed il suo non finto rispetto pe’ sacerdoti, e la sua magnanima fidanza in Dio solo; io credo che da questo tutto ne venga David a riuscire un personaggio ad un tempo commoventissimo, e maraviglioso» (Parere sulle tragedie cit., p. 122).

29 At. I, sc. 1, v. 20; Saul cit., p. 51.

30 At. I, sc. 1, v. 9 (ivi, p. 51).

31 Contro l’interpretazione piú tradizionale di Abner come perfido e vile consigliere di Saul, si può ricordare l’equilibrata, ma un pò generica definizione che ne dava lo stesso Alfieri: «Abner, è un ministro guerriero, piú amico che servo a Saulle; quindi egli a me non par vile, benché esecutore talora dei suoi crudeli comandi» (Parere cit., p. 122).

32 At. I, sc. 1, vv. 5-6; Saul cit., p. 51.

33 E l’alba ritornerà come motivo poetico (ma divenuto sempre piú carico di ansia e di incertezza) nell’ultima parte della tragedia, quando tutti attendono una nuova alba di battaglia, e Micol, nel suo monologo dell’Atto V, replicherà in forma piú ampia e romantica l’attenzione all’ora e la situazione del primo Atto fra la notte profonda e quell’alba che non sorgerà mai piú a illuminare la scena.

34 At. V, sc. 1, v. 281; Filippo cit., p. 92.

35 A cui tanto contribuí la recitazione del massimo interprete ottocentesco, Gustavo Modena, nel suo rilievo troppo convulso e quasi patologico, nella accentuazione della furia e dello squilibrio e non anche della malinconia e della dolorosa certezza che Saul ha della propria sorte, del suo disperato bisogno di pace e di affetti pur nella sua orgogliosa solitudine.

36 At. II, sc. 1, vv. 1-2; Saul cit., p. 65.

37 Ad esempio lo Zumbini, che anche rilevò esageratamente il valore del paesaggio come essenziale caratteristica di novità del Saul (cfr. B. Zumbini, Il «Saul» dell’Alfieri, «Nuova Antologia», vol. LXXX (1885), pp. 393-407; poi in Id., Studi di letteratura italiana, Firenze, Succ. Le Monnier, 1894 (19062), pp. 35-62). E l’accentuazione dei caratteri della vecchiaia e della follia di Saul si integravano, nella critica postromantica, in una interpretazione sempre piú patologica, degradando la grande poesia alfieriana nei limiti di un impegno veristico.

38 At. II, sc. 1, vv. 26-48; Saul cit., pp. 66-67.

39 Si guardi soprattutto alla eccezionale funzione poetica dell’intreccio di esclamazioni e interruzioni specie all’inizio della parlata, al seguirsi delle cadenze dolenti e impetuose nei primi versi, in cui la mossa dolente e affettuosa che assicura l’amore di Saul per i figli è dolorosamente approfondita dall’improvviso «pur troppo» e sottolineata dalla pausa che la segue, prima della scandita interrogazione che dispone in una successione potente le parole essenziali dei valori di Saul: «or la vittoria, e il regno, / e la vita vorrei?» (il mondo di valori che solidalmente vorrebbe salvare). E l’interrogazione stimola la suprema energia dell’immagine tragicamente salvatrice della morte eroica, in cui tutto l’impeto di Saul si traduce con la sua ansia impaziente («Precipitoso»), con la sua irruenza combattiva che poi si svolge nel ritmo scandito, asseverativo che conclude quel primo movimento in una visione squallida, in una clausola assoluta e lapidaria: «cosí la vita orribile, ch’io vivo».

40 At. II, sc. 2, vv. 123-129 (Saul cit., pp. 69-70).

41 Vv. 154-163; ivi, p. 71.

42 At. IV, sc. 3, vv. 52-53; ivi, p. 104.

43 Si noti, a riprova dell’estrema potenza poetica di questo Alfieri della maturità (e dell’importanza del suo linguaggio poetico a base dello svolgimento del nostro piú profondo romanticismo: Foscolo e Leopardi; e come non pensare per questi ultimi versi alla nuda potenza del Leopardi di A se stesso?), la nuda, assoluta forza espressiva delle ultime parole staccate, pausate, perentorie, l’effetto alto e severo del pluralis maiestatis, l’energia ferma della ripetizione di «questo», prima legato dall’enjambement e pur rilevato alla fine del verso, poi ripetuto come ultima, definitiva parola.

44 Vv. 178-179; ivi, p. 72.

45 Questo colloquio permetteva all’Alfieri di “innestare” nella tragedia un brano descrittivo (la descrizione del piano di battaglia e del paesaggio in cui la battaglia dovrebbe svolgersi) secondo il suo desiderio di varietà e di prove di abilità letteraria (secondo quanto egli stesso dice nel ricordato Parere).

46 Vv. 144-152; Saul cit., p. 88.

47 Sc. 4, vv. 225-237; ivi, pp. 92-93.

48 L’equivoco dell’Alfieri venne a lungo accettato dalla critica e solo il Momigliano affermò decisamente la letterarietà, la bruttezza, la meccanicità dei canti davidici.

49 Vi può essere anche la presenza dell’Ode alla musica del Dryden che tanta efficacia ebbe sul neoclassicismo “musicale” alla Mazza (vedi in proposito il mio saggio Aspetti della poetica neoclassica di fine Settecento, in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963 (19763), pp. 145-190).

50 La versione cesarottiana dell’Ossian, che tanto fu utile all’Alfieri per il suo verso tragico e come meditazione per lui di motivi preromantici, offriva in questo caso alla sua attenzione la sua parte piú scadente: i canti polimetrici con cui il Cesarotti cercò di variare la monotonia degli sciolti in parti “liriche” che piú lo allontanavano dal testo inglese e piú lo legavano al gusto settecentesco di origine arcadica (e che pure interessò poi i romantici fautori della polimetria).

51 Si consideri cosí l’immagine esteriore, nella sua ricerca di sublime biblico, con cui Saul chiede a David l’evocazione del suo passato glorioso e giovanile: «Folgor mi mostra di mia verde etade» (sc. 4, v. 266) o, peggio, il commento di Saul ai versicoli sciatti con cui David gli ha presentato immagini di pace familiare («Oh bella la pace! / Oh grato il soggiorno, / là dove hai dintorno / amor sí verace, / sí candida fe’!»): «Felice il padre di tal prole! Oh bella / pace dell’alma!... Entro mie vene un latte / scorrer mi sento di tutta dolcezza...» (sc. 4, vv. 348-352 e 357-359; Saul cit., p. 97).

52 Gionata assicura Saul che David si è allontanato, che egli è solo con i suoi figli fedeli, e lo esorta a tornare alla pace. Micol, piú fine e delicata, affermerà solo l’assoluta dedizione dei figli che non lasceranno mai il padre qualunque cosa egli possa fare: «E gli avrai sempre al fianco...» (sc. 5, v. 410; ivi, p. 99).

53 Sc. 3, vv. 88-99; ivi, pp. 105-106.

54 Altre volte nelle precedenti tragedie l’Alfieri aveva espresso questo senso feroce e scellerato della politica di potenza, ma mai era giunto a farlo affermare e approfondire con tanta energia e dolorosa lucidità dallo stesso tiranno: ciò che è reso possibile, oltre tutto, dalla singolare complessità di Saul tiranno e vittima, dotato di fortissima coscienza anche dei caratteri negativi di ciò per cui lotta con tanta tenacia.

55 Si noti l’estrema forza feroce e beffarda con cui Saul rovescia su Achimelech la profezia di sventure che questi gli presenta in tono ispirato ed enfatico: «Profeta / de’ danni miei, tu pur de’ tuoi nol fosti. / Visto non hai, pria di venirne in campo, / che qui morresti: io tel predico; e il faccia / Abner seguire» (vv. 233-237; ivi, pp. 110-111).

56 V. 198. E sotto l’invettiva, l’eroica e dolorosa esaltazione della nobiltà dei guerrieri che «sotto l’acciar sudanti» menano «pensosi orridi giorni ognora» (vv. 199 e 202; ivi, p. 109).

57 Vv. 178-187; ibid. Il testo biblico attribuiva a Samuele solo l’ordine di uccidere Agag. Qui Samuele è addirittura fatto carnefice del re vinto, nel cui petto «inerme» egli immerge tre volte il ferro «con la sua man sacerdotale» (vv. 189-190).

58 Vv. 253-257. Qui Saul riprende quasi le stesse parole bibliche dell’ordine divino di distruzione degli Amalechiti, divenuto in questo parossismo tirannico quasi riproduzione in terra della spietata tirannide celeste, conformemente alla stessa intuizione alfieriana di un simile rapporto (tiranno, imitazione di una concezione tirannica di Dio) nella Tirannide.

59 Vv. 240-244; ivi, p. 111.

60 Sc. 5, vv. 282-290; ivi, p. 113.

61 Sc. 6, vv. 300-302; ivi, p. 115.

62 Sc. 7, vv. 303-304; ibid.

63 At. V, sc. 1, vv. 1-9; ivi, p. 117.

64 Vv. 30-34; ivi, p. 118.

65 Sc. 2, vv. 106-116; ivi, pp. 121-122. Si noti il grandioso effetto poetico ottenuto dall’Alfieri con questa sobria, essenziale attenzione al rumore della battaglia (come alle tinte cupe della notte), che seguiterà a risuonare per tutto il finale fino all’irrompere dell’esercito nemico, mentre la scena verrà tragicamente illuminata dalle fiaccole incendiarie dei vincitori. L’Alfieri non ha bisogno di didascalie esterne: le indicazioni scenografiche sono implicite nelle parole dei personaggi, cosí come nella sua potente concentrazione poetica; nella forza della sua parola poetica sono contenute le essenziali indicazioni dell’atteggiamento mimico dei personaggi, il modo con cui essi si presentano sulla scena. Arte superiore che verrà ancor piú sviluppata poi nella Mirra.

66 Sc. 3, v. 174; ivi, p. 124.

67 Vv. 178-182; ivi, pp. 124-125.

68 «Oh figlia!... Or taci: / non far, ch’io pianga. Vinto re non piange» (Sc. 4, vv. 201-205; ivi, p. 127).

69 Vv. 191-196; ivi, p. 126.

70 Vv. 199-200; ivi, p. 127.

71 Ma fino all’ultimo, in queste forme sublimi di lapidario riepilogo della sua sorte, Saul si mostrerà, com’egli è, profondamente umano; ché il suo eroismo gigantesco comprime, non annulla un mondo sentimentale in lui genuino ed essenziale.

72 Sc. 5, vv. 216-219; ivi, p. 128.

73 Nell’Idea del Saul, l’Alfieri aveva scritto: «morte di un reprobo» (ivi, p. 138). E come non sentire nelle parole che Saul rivolge a Dio l’eco delle ultime battute del Polinice? Quando Polinice chiede morendo al fratello Eteocle morente: «Sei pago tu?», ed Eteocle risponde: «Son vendicato. Io moro;... / E ancor ti abborro» (V. Alfieri, Polinice, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, p. 86 – At. V, sc. 3, vv. 199-200). Davvero l’Alfieri nella sua tragica visione della vita e dei rapporti fra uomo e divinità aveva trasferito in questa l’inesorabile passione di vendetta e di odio del personaggio assetato di assoluto dominio e di incontrastata potenza tirannica. Alla “lacerazione” nei rapporti familiari che tanta importanza ha nelle sue prime tragedie, corrispondeva una lacerazione piú paurosa nei rapporti fra uomo e potere superiore. Una lacerazione profondamente pessimistica e sofferta che vive in termini poetici, ma che indubbiamente rappresenta pure un momento importante nella formazione della spiritualità romantica, e soprattutto in quella linea del romanticismo che culmina in Leopardi e De Vigny.

74 Amore e Morte, vv. 112-113; Tutte le opere cit., I, p. 34.